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vendredi 14 mai 2021

Il platforming del capitale

Vent'anni fa, Michel Houellebecq ha pubblicato Plateforme [Piattaforma, Bompiani ed.] un romanzo che tratta dell'organizzazione globalizzata del turismo sessuale, in collaborazione con un grande gruppo alberghiero. Questo aspetto del processo di produzione del plusvalore, mentre certamente si è espanso notevolmente con internet, non è certamente il settore principale dell'accumulazione di capitale, ma la forma di relazioni sociali che implica è diventata abbastanza diffusa. Il modo di produzione capitalista oggi è largamente dominato dalle piattaforme che sono diventate i maggiori centri di accumulazione. Come i papponi alla moda nel romanzo di Houellebecq, le piattaforme che mettono in contatto acquirenti e venditori stanno incassando la parte del leone dei frutti di questo commercio. Si converrà che il mercato della prostituzione non è un mercato libero dove acquirenti e venditori si incontrano e contrattano liberamente. Lo stesso vale per la piattaforma.

La prima idea che venne fuori quando Internet cominciò ad essere diffuso fu quella di vendere servizi. Questo era stato sperimentato in Francia attraverso il Minitel, uno dei settori più redditizi del quale era il "Minitel rosa" che ha permesso a Xavier Niel, fondatore di Free, di fare fortuna. Minitel offriva tre tipi di servizi: servizi gratuiti (servizi pubblici, essenzialmente o servizi per la connessione al sistema di ordinazione di un venditore), servizi economici, tassati dalla connessione, e servizi a pagamento tassati dalla durata, che era il caso di "3615". La prima idea è stata quella di trasporre questo modello su Internet generalizzando il servizio. Ma l'esplosione della "bolla internet" nei primi anni 2000 ha dimostrato che questo modello non avrebbe funzionato e che era necessario qualcos'altro. Le aziende che operano direttamente su Internet offrono un servizio gratuito [per esempio un servizio di ricerca di siti e pagine, come Google], il quale servizio gratuito utilizza i dati dell'utente per rivenderli a un commerciante che li può utilizzare per la prospezione. Le "reti sociali" funzionano su un principio simile.

La fase successiva è stata la trasformazione dei commercianti online in piattaforme commerciali. Amazon non è solo un supermercato che offre i suoi scaffali all'acquirente che viene a passeggiare sul WEB. È anche un fornitore di musica, una piattaforma video, una piattaforma di abbonamento per piattaforme video (come OCS, Starz), etc., ma è molto di più: il gruppo di Jeff Bezos è un mercato in sé, poiché Amazon serve come intermediario per un gran numero di rivenditori che vendono i loro prodotti attraverso la rete Amazon. Se vuoi comprare un tosaerba, puoi ordinarlo da Amazon ma sarà venduto da un altro negozio online [come "OBI"] che a sua volta rivende prodotti di un grossista. Ma se i critici prendono di mira prima Amazon, tutte le marche che vendono online procedono allo stesso modo: FNAC, ManoMano, Ma, Darty, Castorama sono tutte piattaforme di vendita online dove arrivano altri venditori, che spesso sono essi stessi rivenditori.

Non ci saremmo fermati lì. La piattaforma produce, o più precisamente supervisiona la produzione di piccole mani che vengono ad alimentare la piattaforma: così Amazon attraverso il sistema KDP-Amazon [Kindle-Direct-Publishing] pubblica libri in self-publishing garantendo l'esclusività sul titolo. Così un libro auto-pubblicato a si è trovato nella prima lista del Renaudot 2018. Andrà oltre? Netflix va bene a Cannes, perché non Amazon al Goncourt, con grande dispiacere delle case editrici che hanno monopolizzato il premio per decenni.

La piattaforma è anche un fornitore di ordini. L'"Amazon Mechanical Turk" è una piattaforma dove i compiti sono offerti dai richiedenti [per esempio, controllare la correzione della scansione di un pacchetto di file] e dove gli individui vengono a offrire il loro servizio, di solito a prezzi molto bassi. Perché questo "Mechanical Turk"? In riferimento alla macchina del barone von Kempelen, questa macchina-canaglia che doveva giocare a scacchi, mentre un nano era nascosto all'interno della macchina e controllava direttamente il movimento dei pezzi tramite una serie di specchi. Amazon, ringraziamolo, rivela uno dei segreti delle reti di intelligenza artificiale: c'è qualcuno nella pancia della macchina e sono i milioni di manine che vengono a nutrire il mostro.

Queste piattaforme IT stanno già giocando un ruolo economico significativo e potremmo essere solo all'inizio. Lo sviluppo del telelavoro e della società senza contatto ha creato nuove esigenze, e non è senza motivo che uno dei maestri del World Economic Forum di Davos vede la pandemia di Covid 19 come una "finestra di opportunità" per il "grande reset" del sistema, con il "digitale" come colonna portante.

Le piattaforme sono macchine per centralizzare il capitale.

Si parla spesso del peso dei GAFA, o più precisamente dei GAFAM, dato che non dobbiamo dimenticare la piccola azienda del signor Gates. Ecco le sei più grandi capitalizzazioni di mercato nel mondo alla fine del 2020 (in miliardi di dollari): 1: Apple, 2244, USA; 2: Saudi Aramco, 1865, S. Arabia, petrolio; 3: Microsoft, 1684, USA, tecnologia; 4: Amazon, 1592, USA, tecnologia; 5: Alphabet (la società madre di Google), 1175, USA, tecnologia; 6: Facebook, 761, USA, tecnologia.

Solo una compagnia non-internet, Saudi Aramco, la compagnia petrolifera saudita, è in questo gruppo di testa. Al 7° posto c'è un gigante cinese di internet, Tencent e al 9° posto c'è una gigantesca piattaforma cinese, Alibaba! Per fare un confronto, il principale produttore di automobili, Toyota, è solo al 31° posto, la multinazionale del petrolio Exxonmobil al 57° e Total è al 100° posto! La capitalizzazione di Total è circa 1/20 di quella di Apple. Aziende come Apple o Microsoft dominano il mercato del software e del marchio, ma fanno costruire le loro macchine altrove.

La cosa più strana è che questa classifica non ha niente a che vedere con le vendite. Wallmart, il gigante della vendita al dettaglio, è in cima alla lista anche se non è nella top 100 in termini di capitalizzazione. Nella classifica delle vendite, troviamo cose più usuali come Toyota, VW, compagnie petrolifere, ecc. Per i profitti, Apple è il leader, ma è l'eccezione. Nessuno degli altri giganti di internet fa profitti particolarmente grandi. E in termini di numero di dipendenti, Wallmart è in testa con 2.300.000 dipendenti, con Amazon al 10° posto con 566.000 dipendenti.
Tutte queste cifre faranno tornare a scuola i volgari marxisti! Non c'è una relazione diretta tra il valore prodotto e la capitalizzazione! Il capitale produttivo permette l'estrazione del plusvalore, ma è il capitale "improduttivo" (l'intermediario) che intasca il profitto. In effetti, l'organizzazione del modo di produzione capitalista può essere compresa solo da un punto di vista globale. Il plusvalore non è prodotto individualmente da ogni capitalista nella sua impresa, ma globalmente, ed è distribuito, attraverso l'intermediario del mercato, secondo ogni sorta di criteri che Marx aveva parzialmente dettagliato nel Libro III del Capitale e che includono la produttività del lavoro, ma anche ogni sorta di accordi istituzionali e i rapporti di forza tra gli stati e tra le frazioni della classe dirigente.

Ciò che è cambiato, e che rende questo famoso "liberalismo" o "neo-liberalismo" che ha così ossessionato la mente della gente, è che il mercato è in gran parte uno "pseudo-mercato". La piattaforma è un mercato a sé ed è la piattaforma che controlla l'accesso al "mercato" per una miriade di imprese di tutte le dimensioni. Se fossimo in un modo di produzione capitalista completamente liberale, il capitale non andrebbe all'azienda di Jeff Bezos, ma piuttosto alle aziende che sono in grado di pagare dividendi ai loro azionisti, perché producono beni con una buona produttività. Amazon non deve la sua fortuna alla propria redditività, ma al fatto che può ottenere un monopolio ed eliminare o schiavizzare tutti i piccoli attori nei vari mercati che copre. Ma, globalmente, essendo la produzione di plusvalore insufficiente per tutti i settori del modo di produzione capitalista, la produzione di capitale fittizio viene a compensare: si compra un'azione non perché l'impresa fa soldi, ma perché la sua azione sale e promette di salire ancora - questo è tipicamente il caso di Tesla, un modesto produttore di automobili che, per il momento, non ha guadagnato un dollaro con i suoi veicoli elettrici di lusso. Tutti sanno che gli alberi non crescono fino al cielo, ma nel frattempo, ogni piccolo centesimo deve essere preso. Questo sistema è condannato a lungo termine. Ma alla fine siamo morti, come sottolineava Keynes.

Rimodellare il mondo

C'è effettivamente un mercato dominato dal mercato, ma è un mercato speculativo in un'economia dominata da piattaforme che vassallizzano molte altre imprese dando loro accesso a una gamma più ampia di consumatori. Questa evoluzione delle piattaforme fa chiaramente parte della "rifeodalizzazione" del mondo diagnosticata da diversi autori come Alain Supiot. Alcune delle aziende che controllano il mercato dei computer sono veri e propri monopoli che godono di rendite impressionanti. Su ogni PC venduto nel mondo, Microsoft intasca tra i 145€ e i 265€! Apple ha costruito il suo mercato, con prodotti che sono soprattutto marcatori di appartenenza sociale e che sono nella stessa nicchia di Rolex o Ray ban, ma come Rolex non dà un tempo migliore di un orologio da 30 euro, l'hardware di Apple, prodotto nello stesso luogo degli altri negozi di hardware, non dà un servizio migliore. Marx ha parlato del feticismo della merce: qui siamo nelle forme più arcaiche di questo feticismo.

Questo posto predominante delle piattaforme contribuisce alla disintegrazione della classe operaia, sempre meno capace di resistere agli assalti del capitale. Uber, Deliveroo e tutti quanti sono le principali teste di ponte di un'offensiva antisociale su larga scala. Il proletariato come "soggetto rivoluzionario" [o così pensavamo] sta lasciando il posto a un "precariato" che non è altro che una plebe globalizzata, dove, accanto ai lavoratori salariati "vecchio stile", ci sono lavoratori part-time, lavoratori a contratto, lavoratori "Uberizzati", e lavoratori autonomi che sono autonomi solo di nome. Di fronte a questo proletariato, non c'è più una classe borghese legata da una certa visione del mondo e da "valori" più o meno solidi, ma una nuova classe di signori, che hanno spodestato o sono in procinto di spodestare la vecchia borghesia, hanno acquisito i servizi di una classe medio-alta che vive delle briciole [per quanto abbondanti siano] della "globalizzazione capitalista" e ha la funzione di mobilitare al servizio del capitale un lumpenproletariato "progressista" che serve da ariete per abbattere tutto ciò che potrebbe resistere al rullo compressore capitalista.
Se non teniamo conto della struttura del modo di produzione capitalista oggi, non capiamo cosa sta succedendo nell'arena della politica. Viviamo ancora con i modelli di mezzo secolo o di un secolo fa. Questo spiega la decomposizione accelerata negli ultimi anni delle organizzazioni operaie tradizionali, una decomposizione che è tanto più rapida perché una parte significativa dei vertici di queste organizzazioni sono integrati nel funzionamento complessivo della macchina di sfruttamento del lavoro.

Denis Collin - 29 aprile 2021






vendredi 26 février 2021

La bureaucratisation du monde


La place qu’ont prise les classes intellectuelles mériterait d’être replacée dans un mouvement plus général analysé dès la fin des années 1930 par le trotskiste italien Bruno Rizzi dans son livre intitulé La bureaucratisation du monde. Rizzi voyait dans le système soviétique stalinien, le nazisme et le fascisme et enfin le new Deal de Roosevelt trois développements convergents du mode de production capitaliste à notre époque, ce qu’il nomma justement « bureaucratisation du monde ». La thèse de Rizzi s’inscrit dans un débat qui porte sur la nature de l’URSS, débat qui oppose Trotski et Yvan Craipeau, le premier tenant l’URSS pour un État ouvrier dégénéré et le second pour un collectivisme bureaucratique. Cependant se poursuivra dans les mêmes termes, opposant Trotski à deux membres du SWP (parti socialiste des travailleurs, trotskiste), James Burnham et Max Shachtman. On trouve toutes les interventions de Trotski dans le recueil Défense du marxisme. Après la Seconde Guerre mondiale, on retrouvera cette discussion sur l’URSS principalement entre les trotskistes orthodoxes et ceux qui, derrière Cornelius Castoriadis, vont fonder Socialisme ou Barbarie. Si on résume schématiquement ce qui est en cause : pour les marxistes orthodoxes — et les trotskistes en font partie — les deux seules classes sociales aptes à dominer la société sont la bourgeoisie capitaliste et le prolétariat. Il ne peut pas y avoir de « classe bureaucratique » comme le soutient Rizzi. Mais l’avantage de Rizzi tient à ce qu’il a une vue plus large. Concluant son analyse de l’URSS, il écrit sous la tête de chapitre « Le règne de la petite bourgeoise » : « C’est ainsi que nous le définissons, car ce phénomène est général et non seulement russe. En U.R.S.S. ce phénomène est surtout bureaucratique, parce qu’il est né de la bureaucratie ; mais dans les pays totalitaires, il se nourrit naturellement parmi les techniciens, les spécialistes, les fonctionnaires syndicaux du parti de toutes espèces et couleurs. Sa matière première est tirée de la grande armée de la bureaucratie étatique et paraétatique, des administrateurs des sociétés anonymes, de l’Armée, de ceux qui exercent une profession libre et de l’aristocratie ouvrière même. »

La place qu’à prise cette petite bourgeoisie bureaucratique dans le mode de production capitaliste découle de l’évolution même de ce mode de production, évolution que Marx avait déjà analysée sans pouvoir encore en tirer toutes les conclusions. Rappelons tout de même ce que Marx nous a appris. La dynamique du mode de production capitaliste conduit à la concentration et à la centralisation du capital. Des firmes gigantesques prennent progressivement la place des petites entreprises capitalistes. Dans ces firmes, le travail de direction du procès de travail n’est plus effectué par le capitaliste, mais par des fonctionnaires du capital, des cadres et des manageurs, formellement salariés et licenciables, bien que leur participation à la distribution de la plus-value soit assez notable. Autrement dit, et c’est le premier point, l’expropriation des capitalistes se fait chaque jour par la logique même de l’accumulation du capital.

En second lieu, la socialisation croissante du procès de production dont chaque partie dépend toujours plus d’une longue chaîne interne et externe à l’entreprise suppose une croissance plus que proportionnelle de tâches de coordination et des processus de surveillance. Dans le même temps, cette production est de plus en plus dépendante de la maîtrise de techniques complexes, qui nécessitent des connaissances scientifiques sérieuses. Même si l’expression est douteuse, du point de vue même de l’analyse marxienne, la science devient ainsi comme « une force productive directe » ainsi que le dit Marx dans un passage très (trop) commenté des Grundrisse.

En troisième lieu, la propriété du capital elle-même devient une propriété sociale : le développement du crédit et des sociétés par actions, indispensables moyens de centralisation du capital et de production de capital fictif, laisse le capitaliste lui-même aux marges du système. Il existe effectivement de richissimes capitalistes qui contrôlent indirectement une part considérable de la richesse sociale, mais ils ne représentent en capital qu’une petite minorité face aux investisseurs institutionnels, aux banques, aux fonds de pension, aux fonds souverains, etc.

En quatrième lieu, la plateformisation de l’économie avec l’introduction des tout-puissants acteurs de « l’économie numérique, les GAFAM et leurs émules qui tendent à devenir un pseudo-marché et s’accaparent en tant qu’intermédiaires une part considérable de la plus-value qu’ils n’ont produite eux-mêmes à aucun titre. Avec quelques dizaines de milliers d’employés tout au plus, ces entreprises ont une capitalisation boursière bien supérieure aux mastodontes du commerce comme Wall Mart (1,2 millions d’employés) ou de l’industrie automobile. Cette capitalisation extravagante reflète simplement la capacité des GAFAM et tutti quanti à s’accaparer la plus-value produite dans les secteurs productifs de l’économie.

Enfin, au-dessus de cet édifice de plus en plus complexe du capital, les décisions stratégiques et d’organisations tendent à être remplies par les gros cabinets d’audit, BCG, KPMG, MacKinsey, Deloitte, PricewaterhouseCoopers (PwC), Bain & Company, etc. Ces groupes emploient au total des centaines de milliers de personnes. PwC, à lui seul, employe 260 000 personnes pour un chiffre d’affaires de plus de 40 milliards de dollars. KPMG a 270 000 employés. Deloitte a 330 000 employés. Les sept majors emploient plus d’un million de personnes. Chaque année, ils renouvellent un quart de leurs employés… qui se retrouvent dans les cadres dirigeants des entreprises auditées !

On voit ainsi que la bureaucratie capitaliste, cette bureaucratie invisible qui dénonce tous les matins comme un mantra la bureaucratie, n’a rien à envier à la bureaucratie soviétique. Sinon qu’aucun “idéal” ne vient entraver son cynisme et qu’elle n’a donc besoin ni de purges ni de féroces luttes idéologiques pour dominer.

On pourrait donc donner crédit aux thèses de Bruno Rizzi. L’histoire du capitalisme au cours du dernier siècle est bien l’histoire de la bureaucratisation du monde. La révolution prolétarienne a été battue par la managerial revolution, pour reprendre le titre du livre de James Burnham, publié en 1941, peu après sa rupture avec le trotskisme, un livre qui a inspiré le 1984 d’Orwell. Il faudrait maintenant ajouter deux thèses.

Premièrement, la petite bourgeoisie intellectuelle n’est pas cette classe débile que dépeignent les marxistes orthodoxes. Contrôlant des portions importantes de la machinerie du mode de production capitaliste, elle est consciente de sa valeur et réclame sa part du gâteau, sinon le gâteau tout entier (une tentation qui l’amène pousser le flirt avec les idées révolutionnaires).

Deuxièmement, une partie de cette petite-bourgeoisie a vu dans le mouvement ouvrier et les idéaux socialistes un moyen de conquérir le pouvoir pour son propre compte. Pour ce faire, elle a non seulement adopté les mots et les slogans du socialisme — ce fut le cas dans les pays ex-coloniaux, tous, presque sans exceptions, tombés du Charybde de la domination impérialiste dans le Scylla des tyranneaux autochtones qui le plus souvent n’ont fait que suivre les traces des anciens maîtres. Dans les pays capitalistes avancés, la petite bourgeoisie intellectuelle a fait sa jonction avec l’oligarchie du mouvement ouvrier, née des victoires mêmes du syndicalisme et des partis socialistes et que Robert Michells a si bien analysée.



jeudi 4 février 2021

Sexe et consentement

Depuis le récit de Vanessa Springora intitulé Le consentement (récit inspiré par ses relatons avec Gabriel Matzneff alors qu’elle était encore adolescente) la question du consentement des mineurs aux relations sexuelles avec des majeurs est revenue dans le débat public. En publiant La familia grande, Camille Kouchner, belle-fille d’Olivier Duhamel,a contraint à aborder à nouveau cette question puisque quelques-uns des défenseurs du célèbre constitutionnaliste ont cru bon de suggérer que, peut-être, les relations sexuelles imposées à son beau-fils âgé de treize étaient consenties. Mais alors s’y est entremêlée la question de l’inceste. Entre temps le Sénat était saisi d’un projet de loi modifiant l’âge du consentement. Et comme d’habitude tout est embrouillé, tant dans les polémiques sur les réseaux sociaux que dans les dîners amicaux ou familiaux. Je vais laisser de côté les aspects juridiques de cette affaire. 


Quand on a appris que le Sénat avait porté à 13 ans l’âge du consentement, on a entendu des cris d’orfraies : le Sénat autoriserait les relations sexuelles avec des enfants. Pour un peu, les honorables « pères conscrits » de la République étaient assimilés à des pédophiles. Il n’en est évidemment rien. En fixant à 13 ans l’âge du consentement, le Sénat n’a pas changé l’âge de la « majorité sexuelle » (15 ans) mais il a durci la loi en supposant que des relations sexuelles avec un mineur de 13 ans étaient toujours considérées comme viol ou agression sexuelle et non plus simplement comme une atteinte sexuelle comme ce pouvait être le cas auparavant si le ce consentement était retenu comme excuse – ainsi un tribunal, il y a quelques années avait acquitté du chef d’accusation de viol un homme adulte ayant eu un rapport sexuel avec une fillette de onze ans, puisque les débats avaient établi le consentement de la victime ; ne restait que l’accusation d’atteinte sexuelle. Après le texte du Sénat, on pouvait lire sur les réseaux sociaux que 13 ans c’était vraiment trop jeune pour consentir, et que même à quinze ans une relation sexuelle était toujours une sorte de viol. Une furie purificatrice semble s’être emparée de meilleurs esprits et même chez des gens d’extrême gauche on a crié au laxisme – ce qui rappelait aux plus âgés la triste affaire de Bruay-en-Artois agitée à l’époque par les maoïstes, Serge July en tête : dans les affaires de sexe, la loi sur les suspects qui fut en vigueur pendant la Terreur est régulièrement réactivée.

Il serait facile d’ironiser. Depuis plusieurs décennies, on considère que les enfants sont des citoyens à part presque entière. À partir de 13 ans, ils peuvent choisir chez lequel des deux parents ils veulent vivre en cas de divorce, ils peuvent changer de nom (prendre celui de la mère plutôt que celui du père). On suppose leur consentement quand ils manifestent leur « dysphorie de genre ». Avec leur consentement prétendu, les parents peuvent faire ordonner des traitements hormonaux pour bloquer la puberté. Mais pour le sexe, si on en croit certains, il faudrait repousser l’âge de la majorité à 18 ans – comme en Turquie, bien que dans ce pays cela n’empêche nullement les mariages des enfants, pendant que la très gouvernementale direction des affaires religieuses rappelle que l’âge du mariage est de 9 ans pour les filles et 12 ans pour les garçons selon la loi islamique. Les propositions des défenseurs de enfants de 0 à 18 ans sonnent étrangement.

En réalité, nous en sommes là parce que l’ethos, la « Sittlkichkeit » comme dirait Hegel, s’est presque complètement effondré. Il faut des lois, toujours plus lois, des lois pour limiter d’autres lois et même les contredire, parce que l’idée de morale commune, à laquelle nous nous référerions spontanément est une idée qui a disparu. Les « bobos » (bourgeois bohèmes) sont aussi des « lilis » (libéraux-libertaires) et ils ont méthodiquement procédé à la destruction de cette éthique commune pour lui substituer la morale minimale1 et il nous faut affronter avec les moyens du bord la situation chaotique qui a été créée. Les pandores prennent la place du surmoi, dont Freud faisait pourtant un acquis civilisationnel précieux.

La pédophilie est sans doute vieille comme le monde et sans doute plus courante dans le passé qu’elle ne l’est aujourd’hui. Quand on a commencé à la mettre en lumière, à partir notamment de l’affaire Dutroux puis du procès d’Outreau, on y est allé sans précaution. « Les enfants disent toujours la vérité », répétait Mme Royal, alors ministre et pas encore ambassadrice des pôles. Et puis, à Outreau et ailleurs on s’est aperçu, quelle découverte, que les enfants pouvaient mentir, accuser leur instituteur parce qu’ils voulaient lui jouer un mauvais tour ou se venger d’une réprimande. Sommes-nous vraiment sortis de là ? Sans doute pas et la mode des #metoo et la nouvelle loi sur les suspects promues par des féministes qui se prennent pour Saint-Just continuent de frapper – beaucoup de féministes et non des moindres exigent aujourd’hui une présomption de culpabilité, des hommes vis-à-vis des femmes, des adultes vis-à-vis des enfants. On trouve des philosophes (sic) et des juristes (resic) pour soutenir la présomption de vérité des victimes ou prétendues telles et pour mettre en cause la présomption d’innocence au motif que les salauds s’en tirent trop souvent. « Tous coupables », voilà le nouveau cri des Torquemada contemporains. Pour éradiquer un mal – comme si on pouvait définitivement éradiquer le mal – et pour faire advenir l’empire du bien absolu, nos sociétés semblent prêtes à balayer tous les principes du droit. Il y a des « bavures », des « dégâts collatéraux », des gens qui se suicident parce qu’ils ne supportent pas la calomnie, ni le regard des « braves gens » qui se disent « il n’y a pas de fumée sans feu »On ne peut plus tenir la meute quand le goût du sang l’excite.

J’ai eu l’occasion de dire ce que je pensais de l’affaire Matzneff et de l’affaire Duhamel. Inutile d’y revenir. Je voudrais plutôt dire quelques mots de la sexualité des enfants et des adolescents et du consentement, puisque cette circonstance a été invoquée comme une excuse possible dans le cas Duhamel – comme elle était invoquée dans le cas de Vanessa Springera tombée sous l’emprise de Matzneff. Le consentement est en effet une question essentielle. Toute la doctrine moderne du contrat repose sur le consentement : dès lors que les deux parties ont consenti, le contrat est valide et pacta sunt servanda (les pactes doivent être honorés). Toute la conception libérale du monde repose là dessus. Mais quid du consentement quand les contractants sont dans des positions asymétriques ? Peut-on consentir à se soumettre ? Cas classique : le contrat de travail qui est reconnu comme un « contrat de soumission » puisque le salarié s’engage à se soumettre à son employeur. Autre cas classique : l’abus de faiblesse. Arracher à un vieillard en état de faiblesse un testament, ce n’est pas un contrat mais une des variantes de l’escroquerie. Les enfants sont régulièrement soumis à de tels « contrats » reposant sur l’abus de leur faiblesse : le commerçant qui profite de la naïveté de l’enfant pour lui refourguer de la camelote ou lui vendre quelque chose dont il n’a aucun besoin commet un délit. Mais avec internet (entre autres) de tels délits se commettent à cadence élevée et sans qu’il y ait la plus petite sanction.

Comme le droit du travail doit protéger le travailleur des abus, toute la législation des mineurs doit les protéger contre les abus dont ils peuvent être victimes de la part des majeurs et c’est à l’intérieur de ce cadre que se place la question de la sexualité. Il est très simple de répondre à la question de la protection des mineurs face aux viols ou aux agressions sexuelles. Ces cas doivent être traités comme des violations graves des droits de la personne, avec la circonstance aggravante que la victime est mineure et qu’il est plus facile à l’agresseur, d’abuser de sa position dominante. Le viol est un crime qui peut valoir 20 ans de prison au coupable. Veut-on encore durcir la loi ? Faut-il rétablir la peine de mort?

Où les choses sont plus complexes, c’est quand le mineur a réellement consenti à des relations sexuelles avec un majeur. Jadis, il y a très longtemps, on prêtait aux enfants l’innocence de l’agneau et seuls les adultes vicieux pouvaient les corrompre. Mais la simple connaissance de la réalité humaine permet d’affirmer que les enfants ne sont « innocents » en matière sexuelle. Le sexe est une question qui les intéresse, bien avant que les garçons aient eu leurs premières pollutions nocturnes et les filles leurs premières règles. Cette curiosité sexuelle trouvait difficilement sa satisfaction, à part dans quelques jeux enfantins ou si un monsieur pas très bien intention venait offrir des bonbons à la sortie de l’école. Ce n’est évidemment plus le cas. Dans leur grande majorité, les enfants ont des smartphones qui leur donnent l’ouverture immédiate sur les sites pornos. Certaines enquêtes fixent à neuf ans l’âge moyen du premier visionnage de vidéo porno. On remarquera que cette évidente incitation à la débauche et à la corruption de mineurs n’est l’objet d’aucune mesure, de quelque nature qu’elle soit, sinon le grotesque « contrôle parental » et le clic sur « j’ai plus de 18 ans ». Les parents qui donnent des smartphones aux enfants pour les joindre (c’est un nouveau fil à la patte) et avoir la paix (pendant qu’ils jouent sur leur téléphone, ils ne nous cassent pas les oreilles) ont évidemment une grande responsabilité ! Mais même si vous ne odnnez pas de portable à votre enfant, il aura accès aux mêmes vidéos avec le portable d’un copain. Et, de toute façon, les intérêts commerciaux du porno sont si importants qu’on voit mal qui voudrait s’attaquer à PornHub, nonobstant le fait que le principe de liberté permet aux adultes de lire et voir ce qui leur plaît. Quoi qu’il en soit, nous avons là un chapitre de la protection des mineurs qui ne semble pas émouvoir grand monde. Il n’est pas besoin d’avoir fréquenté la villa de Duhamel à Sanary pour s’initier tôt à la chose sexuelle. Beaucoup de journalistes ont fait mine d’être outragés aux récits de Camille Kouchner, mais ils auraient du suivre d’un peu plus près leurs propres enfants…

Que des enfants, surtout à l’âge de la puberté puisse consentir, pleinement, à des propositions de nature sexuelle, ce n’est pas du tout étonnant. Les enfants, même petits, peuvent être amoureux. Tout juste adolescents, combien sont « tombés amoureux » d’un de leurs professeurs et si se noue une relation intime, on aura du mal à plaider qu’elle ait été contre le consentement du jeune garçon ou de la jeune fille, sauf à considérer qu’avant 18 ans on est dépourvu de tout discernement et de toute personnalité propre. En 1969, Gabrielle Russier, professeur de lettres, tout juste trentenaire, est traînée en justice à la suite d'une liaison amoureuse avec un de ses élèves, Christian Rossi, alors âgé de seize ans ; elle est condamnée à un an de prison avec sursis pour enlèvement et détournement de mineur et se suicide dans son appartement marseillais. L’affaire avait ému l’opinion publique, jusqu’au président de la République de l’époque, Georges Pompidou. Quelques années plus tard, le futur président de la république, Emmanuel Macron nouait avec son professeur de lettres une relation amoureuse qui ne semble plus choquer personne. Dans les deux cas, la relation entre un mineur (consentant) et une personne ayant autorité sur lui rend la relation illicite. La détermination des âges légaux a toujours quelque chose d’arbitraire et on présume que les magistrats seront aptes au discernement – ce qui ne va pas de soi, puisque désormais la multiplication des lois rend souvent le verdict presque automatique. Mais le véritable problème n’est justement pas légal. Il devrait être moral.

Freud avait expressément interdit la relation entre le psychanalyste et ses patientes – interdit que Ferenczi avait allégrement enfreint. Pourquoi ? Tout psychanalyste sait que son patient fera un transfert vers son analyste et que donc l’amour qui lui est adressé ne lui est pas adressé réellement. Il est adressé à la personne dont l’analyste est le substitut dans le processus d’analyse. De la même manière l’amour que l’élève pourrait vouer à son professeur n’est jamais l’amour voué à la personne du professeur en tant qu’humain, mais un substitut de l’amour dirigé vers le père ou la mère, une manifestation à retardement du complexe d’Œdipe. Par conséquent, l’éthique du professeur devrait lui interdire de céder au désir qu’il pourrait éprouver envers ce jeune garçon ou cette jeune fille. Les discussions sur l’âge légal du premier rapport sexuel sont donc un peu oiseuse si on ne met pas à l’arrière-plan cette simple décence qui devrait être commune. Selon la loi, un jeune homme de 18 ans et un jour qui couche avec une fille de 14 ans et 364 jours est un hors la loi. On se doute qu’il ne se trouvera pas un seul juge pour condamner le jeune homme dès lors que la jeune fille était consentante. Du moins, on ose l’espérer.

Fixer un âge en-dessous duquel on considère qu’il y a toujours non-consentement, voilà qui pourrait sembler évident. Mais cela pose aussi de très nombreuses questions. Deux adolescents de 14 ans sont assez grands pour tenter leur première expérience amoureuse. On considérera qu’il n’y a pas atteinte sexuelle dans ce cas, suppose-t-on. Mais que l’un ait plus de quinze ans, cela change-t-il quelque chose ? Là encore, on peut espérer que les magistrats, si une telle affaire arrivait devant eux, seraient assez avisés pour suivre le bon sens. Mais rien n’est garanti, comme n’est pas garantie la mansuétude des parents.

L’âge du consentement n’est pas plus facile à fixer que celui de la majorité pénale. Dans une note du Sénat, on peut lire : « La jurisprudence considère en général que, dès huit à dix ans, les enfants possèdent la capacité de discernement suffisante pour être pénalement responsables de leurs actes. Quant aux sanctions pénales encourues par les délinquants mineurs âgés d'au moins treize ans, elles ne sont pas énoncées par le code pénal, mais par l'ordonnance n° 45-174 du 2 février 1945 relative à l'enfance délinquante, car le droit pénal des mineurs est un droit autonome. » Il faut donc distinguer la capacité de discernement (les Sénateurs, comme la tradition, la fixent à huit-dix ans, c’est-à-dire quand l’enfant a atteint « l’âge de raison »). Si à dix ans on est pénalement responsable2, pourquoi ne pourrait-on pas consentir à des rapports sexuels ? On aurait du discernement pour savoir qu’il est mal de voler ou de tuer mais plus de discernement pour les choses du sexe ?

Toute cette histoire de consentement soulève plus de problèmes qu’elle en résout et ouvre la voie à des discussions sans fins et à des injustices. Mais, comme toujours, on croit bien faire en édictant des lois sévères, mais les lois sévères n’ont jamais arrêté les prédateurs tout en augmentant mathématiquement et sans raison le nombre des délinquants. Là encore, on espère que la magie du texte viendra suppléer l’absence de décence commune.

Bien que le lien ne soit pas évident, j’aborde pour terminer la question de l’inceste. Le lien est fait par l’affaire Duhamel. Jusqu’en 2010, la loi française ignorait purement et simplement l’inceste. Le code civil interdit les mariages entre frères et sœurs ou entre ascendants et descendants, mais nullement les rapports sexuels dès lors qu’ils ont lieu entre majeurs consentants. Plus, le mariage entre cousins germains n’étant pas expressément interdit par la loi est donc autorisé. Mais comme dans ces affaires on parle à tort de consanguinité, sont également interdits les mariages entre un homme ou une femme et les enfants de son ex-épouse ou époux qui n’ont pourtant aucun lien de « sang ». De même les enfants adoptés sont-ils considérés comme « tabou » bien qu’ils n’aient pas de liens consanguins avec leurs parents adoptifs. La notion d’inceste n’existe que pour les cas d’atteinte ou d’agression sexuelle comme circonstance aggravante si le coupable a des relations de parenté avec la victime. De fait ça ne change rien, puisque de toutes façons l’exercice de l’autorité sur un mineur est une circonstance aggravante. L’insertion de l’inceste dans le code pénal en 2010 a satisfait certaines obsessions mais évidemment n’a pas protégé les enfants contre les atteintes sexuelles incestueuses. On peut se demander pourquoi, avant 2010, l’inceste ne figurait pas dans le code pénal ? Tout simplement parce que l’inceste ne peut pas être juridiquement défini ! Seuls les liens légaux de parenté sont définis puisqu’ils figurent dans le code civil. Les « liens du sang », la loi française, et c’était sa grande sagesse, les ignorait. L’introduction de l’inceste s’inscrit dans un ensemble de dispositions qui visent de facto et paradoxalement à re-naturaliser la filiation qui est simplement affaire de loi jusqu’à présent. Comme on va bientôt abolir l’accouchement sous X et l’anonymat des donneurs de sperme, on va se trouver confronté à des tas de complications déjà prévisibles. Un donneur de sperme tombe amoureux de sa fille génétique devenue majeure, que fait-on ? Jusqu’à présent, il ignore que c’est sa fille génétique et donc il ne se passe rien. Si demain il sait et si elle aussi sait, ils n’auront plus l’excuse de l’ignorance et leur relation deviendra incestueuse. L’obsession de la pureté du sang et des tests génétiques pour vérifier la filiation va se généraliser. La destruction de l’ordre symbolique ouvre bien la voie à ce que Pierre Legendre appelle « conception bouchère de l’humanité ». Il ne faudra plus inscrire les humains sur un état civil mais sur un « herd-book » comme les animaux.

Ainsi nos innovations juridiques propulsées par les revendications de tous les groupes de pression et par la passion ravageuse du bien absolu nous mènent droit vers un monde qui sera de moins en moins vivable.

Denis Collin – 2 février 2021

1Voir Denis Collin & Marie-Pierre Frondziak, La force de la morale, éditions R&N, 2020

2Ne pas confondre responsabilité pénale et sanction pénale.

dimanche 3 janvier 2021

Panne de transmission ?




Il m’arrive, comme ça arrive à tous ceux qui ont déjà quelques décennies derrière eux, de me lamenter de l’insouciance et de l’inculture de la « jeune génération » qui manifeste si souvent un dédain radical à l’égard de ce que les anciens pourraient enseigner. Mais je me ravise bien vite. D’abord parce que le problème de la transmission est le problème fondamental de toute société et il serait bien étonnant que la nôtre s’en sorte sans difficulté ; et, ensuite, on doit remarquer que « ma » génération, celle qui est née après la Deuxième Guerre mondiale, celle qui fut souvent « soixante-huitarde » (mais pas tant qu’on l’a dit, d’ailleurs) est la première génération de notre histoire à exclure par principe le problème de la transmission.

La transmission, problème fondamental

Que la transmission soit le problème fondamental de toute société, c’est dit dans ce magnifique groupe sculpté par Bernini qui représente Énée fuyant Troie, portant son père Anchise sur ses épaules et tenant son fils Ascagne par la main (voir la reproduction dans l’article précédent, « Résolument conservateur »). Porter son père sur son dos, c’est le destin de l’homme qui ne doit pas seulement assumer la charge de la vieillesse de ses parents, mais aussi leur héritage, pour le meilleur et pour le pire. Le poids des générations mortes pèse sur les épaules des vivants, disait Marx. Mais il faut encore surveiller ses enfants et les tenir par la main pour qu’ils ne s’égarent pas, pour qu’ils prennent le bon chemin. Ainsi, loin d’être un atome isolé, comme dans les fictions du contrat social, l’homme est d’abord un maillon entre les générations. C’est pour cette raison qu’il est un animal historique autant que social.

Double rapport donc, vers l’avant et vers l’après, vers le passé et vers l’avenir. Auguste Comte soutenait que la société comprend non seulement les vivants, mais aussi les morts. Mais au fond, elle intègre aussi ceux qui naissent — on doit à Hannah Arendt d’avoir insisté sur la place essentielle de la natalité, et pas seulement de la mortalité, dans la condition humaine. Conserver le monde pour que les nouveaux puissent y entrer, c’est ainsi qu’Arendt définit la place de l’éducation. Toutes les sociétés humaines ont une politique d’éducation, des connaissances et habitudes à transmettre, des rituels à pratiquer pour que les nouveaux entrent dans la société des anciens, pour que les enfants se préparent à l’âge adulte où ils devront porter leurs parents sur leur dos en tenant la main de leurs propres enfants. On a beaucoup étudié l’éducation dans les sociétés les plus archaïques. L’éducation chez les Grecs et chez les Romains nous est assez bien connue — on lira avec profit l’histoire de l’éducation dans l’Antiquité d’Henri-Irénée Marrou. L’humanisme renaissant fut d’abord une éducation. Le cartésianisme fut aussi une théorie de l’éducation et c’est contre cette théorie de l’éducation que réagit Giambattista Vico. Plus que les autres religions, le christianisme sous toutes ses formes développa une politique éducative : on ne naît pas chrétien, la foi ne réside ni dans les gamètes mâles comme dans l’islam ni dans les gamètes femelles comme dans le judaïsme et donc il faut faire advenir les jeunes chrétiens.

Transmettre, c’est aussi inculquer des habitudes, tant est-il que la vertu morale est acquise par l’habitude comme nous l’a enseigné Aristote. Outre la transmission du savoir, il s’agit aussi de transmettre un certain type de comportements sociaux, un certain rapport à l’autorité, une mise en conformité qui semble indispensable pour que les institutions sociales puissent fonctionner convenablement. On ne peut sous cet angle que transmettre le passé, la société d’hier et non celle de demain. Cette transmission semble évidemment contradictoire avec la visée d’instituer des hommes libres. Kant soulevait ce paradoxe d’une « éducation à la liberté ». Si éduquer, c’est conduire sur des chemins que le petit d’homme n’aurait pas empruntés spontanément, il peut sembler qu’on nie de cette manière sa liberté en tant que spontanéité. Mais si on approfondit la réflexion, on comprend qu’il n’en est rien. L’apprentissage des contraintes de la vie sociale ne diminue pas notre liberté, mais en constitue la condition comme l’air permet à l’alouette de voler, pour reprendre une image de Kant. Même une éducation autoritaire produit autant de révoltés que d’individus soumis ! Certes, une éducation libérale (au sens de Léo Strauss) est préférable, mais on ne doit jamais penser que l’éducation est toute-puissante. Elle ne peut qu’une chose, avec beaucoup d’efforts, préparer l’enfant à sa liberté d’adulte (voir D. Collin et M-P. Frondziak, La force de la morale, éditions R&N). La transmission de toute façon se heurte à ceci que, comme le souligne Freud, on ne réussira jamais à réduire les hommes à des termites et les comportements antisociaux sont toujours prêts à ressurgir. On peut même affirmer que ces comportements antisociaux sont ceux que l’on retrouve dans tous les groupes qui visent à la domination absolue (groupes fascistes, sectes en tous genres, etc.).

L’indéniable difficulté de la transmission explique l’importante littérature consacrée à ce sujet et les innombrables recherches et plans d’instruction des jeunes générations. La République de Platon contient un plan d’éducation des gardiens et de formation des dirigeants de la cité — l’éducation du peuple, voué à suivre les désirs de la partie inférieure de l’âme n’y a pas de place. Dans Émile ou de l’éducation, Rousseau propose une pédagogie adaptée à la formation du citoyen apte à vivre dans la république du contrat social. Bien que violemment condamné par l’Église, le livre de Rousseau eut un grand retentissement dans certaines couches de l’aristocratie qui adoptèrent les préceptes de l’auteur du Contrat Social pour l’éducation de leurs enfants ! L’ère des révolutions fut aussi celle des pédagogies révolutionnaires : Maria Montessori, Célestin Freinet, A.S. Neil, etc. Les mouvements révolutionnaires eux-mêmes accordaient une grande importance à la transmission de la tradition révolutionnaire. Quiconque a fréquenté ces mouvements sait l’importance qu’on y accordait aux grands événements dûment commémorés : la Commune de Paris ou la Révolution d’octobre étaient des épopées qu’on se transmettait de génération en génération. Les maîtres à penser étaient honorés et leurs écrits étudiés, analysés et commentés.

En finir avec la transmission ?

Or c’est là quelque chose qui n’a pas été assez mis en évidence, ma génération, après avoir absorbé ce qu’on lui avait transmis semble avoir décidé qu’elle n’avait plus rien à transmettre, que l’idée même de transmission devait être chassée de nos esprits, que nous devions apprendre du futur et non pas du passé, proposition hallucinante qui n’a pas toujours été admise explicitement, mais que nous retrouvons à l’arrière-plan de ce fait social massif qu’est la dés-instruction des jeunes générations. C’est à Jean-Luc Mélenchon que revient le mérite, si l’on ose employer ce terme, d’avoir énoncé cette thèse de la manière la plus claire. Dans L’ère du peuple, un livre publié en 2014, le futur candidat à la présidence de la République, une section s’intitule « La fin du passé ». L’auteur constate que la tradition a perdu son importance : « À présent, c’est un renversement de perspective complet. Le passé est toujours dépassé. Il n’apprend rien sur la façon d’utiliser l’environnement du présent. Au contraire, si nous en restions à ce que nous savons, nous serions empêchés de faire fonctionner correctement les nouveaux objets du présent ! » Il ne vient pas à l’esprit de notre homme d’esprit que les objets du présent ont été inventés et fabriqués par des hommes qui subissaient la tradition du passé et que si nos enfants peuvent utiliser les objets du présent, c’est parce que la génération précédente les a conçus et en a enseigné le fonctionnement… Mélenchon reconnaît que cette focalisation de notre époque sur le désir du futur (pour un peu il aurait parlé du « désir d’avenir », comme son ex-camarade Ségolène Royal) peut poser problème, mais loin de voir dans cette « abolition du passé » la grande figure de l’idéologie dominante à notre époque, il y voit une tension féconde. La formule qu’il utilisera plus tard est que nous sommes devenus « les héritiers du futur » : c’est ainsi qu’il s’est exprimé à la tribune de l’Assemblée Nationale lors du vote enthousiaste de la nouvelle loi bioéthique, une loi qui consacre la séparation radicale entre couple et procréation, et rend possible la marche vers le dépassement de l’humanité.

Mélenchon n’est pas qu’un politicien opportuniste et un beau parleur. Sa pensée est structurée et parfaitement « révolutionnaire ». C’est encore dans L’ère du peuple qu’il pose la question de la fin de la mort : « Dans ce domaine aussi on passera de l’inéluctable au voulu et cette émancipation fera peser sur nous le poids d’une responsabilité plus grande. Le processus d’individualisation, enfant du grand nombre urbain, ne nous rend pas moins humains. Il nous colle au contraire le nez sur notre humanité. Il n’y aura pas de pose. Voici pourquoi. Le destin humain tel qu’il a toujours été connu n’est-il pas totalement reformulé quand commence à s’envisager la possibilité d’en finir avec la mort elle-même ? Condorcet paraissait si étrange quand il imaginait ce jour où l’humanité éclairée par la science vaincrait la mort. Ce sera peut-être plus vite fait que nous pouvons l’imaginer. » Ce texte halluciné pourrait être le délire d’un gourou posthumaniste, d’un Raël de gauche. Mais en vérité, il exprime d’abord le noyau même de la nouvelle idéologie progressiste, une idéologie qui renouvelle les thèmes classiques du libéralisme tel qu’il a été remodelé dans l’usine à fabriquer du rêve américain :

— L’homme doit se débarrasser du poids du passé. Il est devenu l’héritier du futur et il peut dorénavant se faire lui-même. L’homme qui se fait lui-même est bien connu : c’est le self made man dont Mélenchon est le nouveau prophète.

— La technologie est toute puissante et elle accélère l’histoire au point que plus aucun retour en arrière n’est possible et qu’il faut s’y adapter parce qu’elle nous fera entrer dans un monde entièrement nouveau, un monde que les idées du passé nous empêcheraient de gagner.

— Débarrassé de la mort, l’homme du futur sera évidemment un surhomme. Mélenchon n’ajoute pas que ceux qui refuseront cette marche vers le surhomme seront « les chimpanzés du futur », mais l’idée est évidemment sous-jacente.

Avec une telle vision du destin de l’humanité, il n’y a vraiment rien à transmettre. Et effectivement, la transmission n’est plus rien d’autre que la mise en œuvre de l’aptitude à « abolir le temps » (sic) que permet le stockage du savoir humain dans les big data. Sans doute, à la lecture de Mélenchon sommes-nous tentés de dire : « Père, pardonne-lui, il ne sait pas ce qu’il dit ! », car ses paroles sont en pleine adéquation avec ce qu’il prétend combattre. En effet, le capitalisme d’hier, celui qui a achevé sa mue dans les années 1960 et 1970 était encore un capitalisme tributaire du passé, un capitalisme portant encore les marques de la société ancienne dont il était sorti quelques siècles plus tôt. Le capitalisme de la fin du xxsiècle est le capitalisme débarrassé de son passé, un capitalisme « enfin chez lui » et qui ne doit plus rien aux valeurs de sociétés qui l’ont précédé. « Du passé faisons table rase », disaient les paroles de l’Internationale. C’est le capitalisme qui met tout cela en œuvre, ainsi que le disait Marx dans le Manifeste du parti communiste. Lisons encore une fois ce passage fameux que la plupart des « marxistes » ou prétendus tels n’ont jamais lu, puisqu’ils ne l’ont jamais compris :

« La bourgeoisie a joué dans l’histoire un rôle éminemment révolutionnaire.

Partout où elle a conquis le pouvoir, elle a foulé aux pieds les relations féodales, patriarcales et idylliques. Tous les liens complexes et variés qui unissent l’homme féodal à ses “supérieurs naturels”, elle les a brisés sans pitié pour ne laisser subsister d’autre lien, entre l’homme et l’homme, que le froid intérêt, les dures exigences du “paiement au comptant”. Elle a noyé les frissons sacrés de l’extase religieuse, de l’enthousiasme chevaleresque, de la sentimentalité petite-bourgeoise dans les eaux glacées du calcul égoïste. Elle a fait de la dignité personnelle une simple valeur d’échange ; elle a substitué aux nombreuses libertés, si chèrement conquises, l’unique et impitoyable liberté du commerce. En un mot, à la place de l’exploitation que masquaient les illusions religieuses et politiques, elle a mis une exploitation ouverte, éhontée, directe, brutale.

La bourgeoisie a dépouillé de leur auréole toutes les activités qui passaient jusque-là pour vénérables et qu’on considérait avec un saint respect. Le médecin, le juriste, le prêtre, le poète, le savant, elle en a fait des salariés à ses gages.

La bourgeoisie a déchiré le voile de sentimentalité qui recouvrait les relations de famille et les a réduites à n’être que de simples rapports d’argent.

La bourgeoisie a révélé comment la brutale manifestation de la force au Moyen âge, si admirée de la réaction, trouva son complément naturel dans la paresse la plus crasse. C’est elle qui, la première, a fait voir ce dont est capable l’activité humaine. Elle a créé de tout autres merveilles que les pyramides d’Égypte, les aqueducs romains, les cathédrales gothiques ; elle a mené à bien de tout autres expéditions que les invasions et les croisades.

La bourgeoisie ne peut exister sans révolutionner constamment les instruments de production, ce qui veut dire les rapports de production, c’est-à-dire l’ensemble des rapports sociaux. Le maintien sans changement de l’ancien mode de production était, au contraire, pour toutes les classes industrielles antérieures, la condition première de leur existence. Ce bouleversement continuel de la production, ce constant ébranlement de tout le système social, cette agitation et cette insécurité perpétuelles distinguent l’époque bourgeoise de toutes les précédentes. Tous les rapports sociaux, figés et couverts de rouille, avec leur cortège de conceptions et d’idées antiques et vénérables, se dissolvent ; ceux qui les remplacent vieillissent avant d’avoir pu s’ossifier. Tout ce qui avait solidité et permanence s’en va en fumée, tout ce qui était sacré est profané, et les hommes sont forcés enfin d’envisager leurs conditions d’existence et leurs rapports réciproques avec des yeux désabusés. »

Longtemps l’extrême gauche marxiste a reproché au capitalisme d’être « réactionnaire », c'est-à-dire de n’être pas dans le « sens de l’histoire », alors que Marx explicitement l’inverse. La critique de la famille patriarcale la plus sérieuse n’est pas celle de nos révolutionnaires, mais sa critique en acte, sa destruction active par le mode de production capitaliste. La bourgeoisie patrimoniale à l’ancienne avait à transmettre des biens et des valeurs. Mais pour transmettre, il faut stocker ce qu’on va transmettre. Le capitalisme contemporain ne stocke rien. Les moyens de production sont rapidement condamnés à l’obsolescence. La friche industrielle est la seule trace que laisse le capital qui, lui, ne cesse de circuler. Il faut même que le capital circule à la vitesse de la lumière : des câbles transatlantiques et transpacifiques énormes ont été tirés pour que les places financières puissent fonctionner de manière synchronisée et que les échanges se fassent désormais à la nanoseconde. Le capitalisme vise à l’abolition du temps. L’idéal serait que le capital circule sans temps de circulation, notait déjà Marx. Dans Accélération, Harmunt Rosa a montré comment l’accélération continue, le prétendu « temps réel » qui est justement l’abolition du temps, est consubstantielle au stade actuel du mode de production capitaliste (Mélenchon consacre aussi un sous-chapitre à l’accélération, pour en faire un fait incontestable et non une figure du mouvement du capital). L’abolition du temps vise aussi à l’abolition de l’espace : le mythe de la téléportation quantique dit justement que si on peut réduire le temps à zéro, l’espace disparaît : je peux être en même temps ici et ailleurs. Toutes les extravagances de la science-fiction ne font rien d’autre qu’aiguiser la tendance la plus profonde de la dynamique du capital au xxisiècle.

Dans un tel monde, le passé n’a plus aucune utilité et donc la transmission doit être abolie. Descartes, comme toujours, anticipe l’époque moderne. Le Discours de la méthode révoque en doute tout ce qu’on apprend dans les écoles et propose un nouveau plan d’acquisition du savoir, un plan où chacun doit, pour son propre compte, tout reprendre à zéro. Évidemment, Descartes entend ici la démarche philosophique et non l’éducation en général. Mais on a tôt fait de faire cette hasardeuse généralisation et c’est bien le mobile de la polémique de Vico contre les cartésiens. La méthode de Descartes renverse l’ordre chronologique ancien. Le regard n’est plus tourné vers le passé et la méditation des grandes œuvres et des grands auteurs puisque ce passé n’a plus rien à nous apprendre. La science moderne est entièrement tournée vers le futur, sachant que l’état actuel du savoir n’est qu’un état provisoire, destiné à être englouti.

Il faut lire les transformations de l’école depuis plus d’un demi-siècle à la lumière de ce bouleversement et de cette élimination du passé comme quelque chose qu’il faudrait transmettre. L’enseignement des langues anciennes, ultime vestige des « humanités » n’existe plus qu’à l’état de traces. Significativement, en France, le CAPES de lettres classiques (français, latin, grec) n’existe plus. L’anglais (ou plutôt l’anglais de survie) a chassé le latin. L’enseignement du français par « genre » (le genre épistolaire, le genre autobiographique, etc.) a complètement chassé la vieille classification historique : on s’intéressait à la littérature médiévale avant d’en venir en fin de cursus au surréalisme et au roman du xxsiècle… Le temps de la culture est passé à la machine à concasser le temps. Mais ce n’est que la moitié du chemin qui s’accomplit ainsi : la littérature elle-même est vouée à la disparition au profit des techniques de communication. Toute la pédagogie moderniste est fondée sur cette élimination de l’histoire : l’élève n’a pas à faire l’effort d’écouter et de s’instruire de la parole du maître. Jadis, ce maître n’avait d’autre fonction que de faire assister l’élève au dialogue des grands esprits — le maître, en transmettant, s’efface devant ceux dont il donne à entendre la parole. Plus rien de tous ces vestiges n’a sa place à l’école. Depuis la réforme Jospin de 1989 — les mêmes « réformes » se sont produites partout et d’abord aux États-Unis — il ne s’agit plus d’enseigner aux enfants, car désormais l’élève est « au centre » (on se demande bien de quoi !) et il doit construire lui-même son savoir. Le professeur doit se taire ! Il est un « technicien de ressources », disaient certaines instructions ministérielles du temps de Mme Vallaud-Belkacem. Jadis l’école exigeait le silence des élèves — silence indispensable à l’écoute et à la pensée — et désormais c’est aux maîtres que l’on impose le silence. Normal : tout le monde en sait plus que le maître. Les « parents d’élèves », espèce monstrueuse de parents qui ont transformé leurs enfants en « élèves » font la loi, prononcent des jugements, sur simple plainte de leurs chers petits et la sanction doit tomber sur le professeur… jusqu’à la peine capitale comme l’a appris Samuel Paty, professeur d’histoire géographie décapité par un tueur excité par des « parents en colère ».

Chez les éleveurs, on appelle bête de réforme une vache trop vieille pour avoir encore des veaux et donner du lait. Elle est vouée à l’abattoir pour finir en plats préparés, boulettes de viande et croquettes pour chiens et chats. Pour les professeurs, les réformes doivent être entendues en ce sens : ils sont des bêtes à « réformer », des bêtes devenues bonnes à rien. Mais la maladie de la réforme ne concerne pas que l’école. Tout est à réformer, toujours, et chaque réforme elle-même doit céder la place à une nouvelle réforme, au même rythme que celui de l’obsolescence des gadgets électroniques. Tout doit disparaître au grand magasin de la société contemporaine. Tout, vraiment ? Non pas tout, car la domination du capital est éternelle. Il est vrai que le capital est présent partout, il sait tout, il peut tout, il est donc Dieu.

Même les révolutionnaires ou plutôt ceux qui se disent révolutionnaires ont donné leur concours à cette entreprise de destruction de la transmission, confirmant qu’ils n’étaient bien, le plus souvent, que l’extrême gauche du capital. Ce sont de jeunes « gardes rouges », gardes rouges d’opérette sortis de l’école normale supérieure qui ont sonné l’offensive contre les « maîtres penseurs » : ainsi les « nouveaux philosophes » ont-ils connu leur heure de gloire. Les militants qui hier encore transmettaient pieusement les textes sacrés de la tradition révolutionnaire, la discutant sans cesse tels des talmudistes, ont pratiquement disparu de la scène politique ou alors se sont eux-mêmes convertis en « bougistes » jamais en mal d’une innovation décoiffante.

Tout ce qui est traditionnel, partis traditionnels, syndicats traditionnels, etc., semble voué à la disparition. Ne reste que le folklore — il suffit d’avoir visité une « fête de l’Huma » de ces dernières années pour voir comment tout s’est « folklorisé » tout en laissant de plus en plus de grands vides. De même, les monuments historiques, les centres historiques, les sites historiques perdent progressivement toute vie, car ils ne veulent plus rien dire, pour la bonne raison qu’ils n’ont rien à dire à une époque où seul compte le nouveau. L’histoire ne subsiste que sous forme de parc d’attraction. Ainsi se prépare le posthumain, c’est-à-dire l’éclipse de l’homme. Mais comme le passé s’est effacé, le futur suit la même voie. On nous fait miroiter des nouvelles technologies merveilleuses, mais la place pour un futur humain est réduite comme peau de chagrin. La transmission nourrissait des espoirs, transmettait aussi des tâches à accomplir, un monde à construire, un monde que nous pourrions construire puisque le vieux monde était fermement établi et qu’on pouvait prendre appui sur lui. La crise de l’espérance révolutionnaire est donc d’abord une conséquence, pas inattendue du tout, de la fin de la transmission.

C’est jusque dans le substrat anthropologique que cette révolution s’accomplit. Encore aujourd’hui, la vie humaine se transmet, de génération en génération, et les humains procréent. Mais le monde qui s’annonce est tout autre. La fabrique des bébés qui se mijote dans les fourneaux de la « PMA pour tou.te. s » nous dit que l’homme n’a pas vocation à transmettre la vie, donc à se laisser dominer par les générations passées, mais doit au contraire fabriquer des humains entièrement nouveaux, des humains qui ne devront rien à leurs géniteurs, ceux-ci étant réduits à des gamètes prélevés dans des banques de gamètes. La PMA, technique thérapeutique jadis, est devenue par le miracle de la nouvelle loi bioéthique le réacteur biologique du passage de l’humain au posthumain. « Tout ce qui est possible doit être fait », disent les technophiles ou les penseurs désespérés. L’Ancien testament fait la liste des engendrements (tôledôt) et place ainsi la question de la filiation au centre de la structure qui institue la société — la nôtre — et c’est cela qui est en train d’être renversé, ce fil qui est en train d’être brisé. Peut-être faut-il s’abstenir de porter sur cette question un jugement normatif, mais il serait bon que l’on prenne vraiment conscience de ce qui est en cause et qu’on ne déguise pas des bouleversements aussi profonds en simples techniques. Sauf à faire advenir la technoscience comme une théologie nouvelle.

Comment continuer ?

Notre histoire a déjà connu des époques où la transmission s’est interrompue. Vues de loin, les invasions barbares et la chute de l’Empire romain ont dû ressembler à cela : effondrement de la population urbaine, effondrement de l’instruction, guerres incessantes. Nous avons une petite idée de ce qui s’est passé si on compare la population de Rome à l’apogée de l’Empire à sa population au viie ou viiisiècle. Mais le fil ne fut pas rompu, sans doute en raison du rôle capital qu’a joué l’église catholique (pour ce qui concerne l’Europe occidentale, au moins) qui a transmis la langue latine et les manuscrits anciens, mais aussi le sens de la dispute théologique qui devait ouvrir de nouveaux chemins à la philosophie. La renaissance des villes et du commerce a assez tôt redonné vie à des traditions anciennes — par exemple dans le vaste mouvement des communes qui a touché la France, l’Allemagne, l’Italie ou la Baltique. En fait, les barbares n’étaient pas si barbares que cela. Longtemps au bord ou même à l’intérieur de l’Empire romain, ils en ont gardé des souvenirs et se les sont transmis. Cet effondrement ne devait être que temporaire et le Moyen âge, qui ne fut pas un âge sombre, accoucha de la Renaissance.

Si l’on peut être tenté d’utiliser la rhétorique des invasions barbares (comme dans le film de Denis Arcand), l’analogie est très trompeuse. L’effondrement de la transmission ne provoque pas de ruines, mais au contraire accélère l’établissement d’un capitalisme sans limites et prêt à utiliser tout ce que la technique lui offrira pour remodeler le monde. Nous ne pouvons pas nous consoler en invoquant une conception cyclique de l’histoire à l’instar de celle de Vico qui vit dans « l’âge des barbares » le prélude à l’instauration d’un nouvel « âge des hommes ».  Ce ne sont pas de nouveaux barbares qui viendront enrayer la mécanique mortifère du mode de production capitaliste.  Ce sont les conditions mêmes de son développement, ses contradictions internes, qui conduisent fatalement à une crise dont nous sommes incapables aujourd’hui de délimiter les contours exacts. L’accumulation de capital en papier ne peut durer indéfiniment. Il faut extraire de la plus-value de la production de marchandises. Or comme j’ai eu plusieurs fois l’occasion d’y revenir, les conditions de l’accumulation du capital à long terme sont en train de s’épuiser — les ressources de la terre et les ressources de la fertilité humaine. L’énergie gratuite, ou presque, et abondante, c’est, en gros, terminé, et la croissance exponentielle de la population va nécessairement s’arrêter. Les deux sources de la richesse, disait Marx, sont la Terre et le travail. L’une et l’autre vont se raréfier.

D’une manière ou d’une autre, nous allons être obligés de faire demi-tour, de reprendre conscience de notre propre mesure, de revenir à la vieille injonction socratique (« connais-toi toi-même ! ») et ainsi penser à la préservation du monde avant de songer à le changer — même s’il faut le changer.

Personne ne peut proposer l’abandon des techniques qui ont permis de rendre souvent la vie plus confortable, de la prolonger et de diminuer les souffrances des maladies. Mais il est temps d’apprendre à en faire un usage modéré, ce qui ne peut être obtenu en distribuant aux individus des leçons de frugalité, mais en redonnant sens à notre existence, un sens qui peut plonger ses racines dans la culture héritée, non seulement d’Athènes, Rome et Jérusalem, mais aussi de l’Europe médiévale et moderne. En se souvenant d’où nous venons, en refusant de nous extasier devant chaque prétendue nouveauté, en réapprenant que « tout ce qui naît mérite de périr » et que la quête de l’immortalité est le plus sûr moyen de transformer la vie humaine en enfer, nous pouvons rouvrir le futur.

Le 3 janvier 2021.

  

jeudi 24 décembre 2020

Résolument conservateur


En France, il n’est pas bien vu d’être conservateur. Le mot commence mal et donc tout le monde ou presque est pour la réforme, pour aller de l’avant, pour évoluer, pour accepter le progrès… Conservateur ? Voilà une véritable injure que l’on réserve aux syndicats, aux Français d’en bas, à ces maudits « Gaulois réfractaires » ou à des écrivains qu’on ne lit plus.

Il est donc bien difficile de se dire résolument conservateur ! Il est bien plus facile de se dire révolutionnaire. Tout le monde, du moins le monde qui mérite attention, se veut révolutionnaire. Révolutionnaire dans la mode, dans l’art, dans l’écriture, dans la technique, dans tout ce que l’on veut — sauf évidemment dans les rapports sociaux, il ne faut tout de même pas exagérer.

Il existe pourtant un grand nombre de bonnes raisons philosophiques, morales et politiques d’être conservateur. La première de ces raisons ? Toutes les grandes révolutions, les révolutions sérieuses, c’est-à-dire les révolutions sociales commencent parce que le peuple veut conserver ce qu’il a et qu’on veut lui prendre. Conserver son pain, son toit, son mode de vie, son travail, ses traditions nationales ou locales, ses acquis sociaux. Tous le savent : un bon « tiens » vaut mieux que deux « tu l’auras ». Les intellectuels construisent volontiers des républiques qui n’existent nulle part, ils sont les spécialistes des châteaux en Espagne ; ils ont des plans plein leur cartable ou leur disque dur d’ordinateur. Les lendemains doivent impérativement chanter ! Mais, le plus souvent, ils déchantent. L’ivresse des mots se termine en gueule de bois.

J’ai passé quelques années de ma vie dans une organisation révolutionnaire qui n’était ni pour l’autogestion, ni pour les réformes sociétales, ni pour la révolution sexuelle, mais simplement pour la défense de l’école laïque, pour la défense de l’indépendance des syndicats, fondée sur la charte d’Amiens (1905), pour la défense des droits sociaux et des conventions collectives, etc. Je ne regrette absolument rien de cet engagement qui est encore le mien dans ses grandes lignes. Certes, ce n’était pas « mieux avant », mais assurément c’est pire maintenant que les retraites et la sécu sont en voie de démantèlement accéléré et que l’école n’est plus qu’un tas de ruines. Il y a donc des raisons révolutionnaires pour être conservateur. Tout cela, d’ailleurs, Régis Debray l’a déjà dit et bien mieux que moi.

Mais il y a bien d’autres raisons d’être conservateur. Des raisons que l’on n’ose plus avouer en ces époques de politiquement correct et de « cancel culture ». Ces acquis sociaux, ces libertés sociales auxquelles nous sommes encore très nombreux à être attachés, tout cela n’est pas tombé du ciel et ce n’est pas seulement le produit des luttes sociales, car ces luttes sociales elles-mêmes sont un des fruits de toute une civilisation dont nous sommes les héritiers que nous regardons, impuissants, se défaire sous nos yeux. Des Grecs nous héritons de la liberté de la pensée ; des Romains nous héritons le droit qui est l’exact contraire de l’arbitraire des tyrans. Du judaïsme, nous héritons ce goût de la contestation, même de la parole de Dieu ! Et du christianisme nous gardons l’égalité, la fraternité et la liberté de conscience ! Même nos plus extravagantes utopies sont nées de ce terrain. Quand Moïse guide les Hébreux hors de la servitude, il donne le mot d’ordre : laisse mon peuple aller ! Les Noirs américains le chantent : Let my people go ! On pourrait reprendre tout ce que dit Ernst Bloch dans Athéisme dans le christianisme pour montrer que les insurrections paysannes (par exemple la guerre des paysans de Thomas Münzer), les révolutions populaires en Angleterre et France, les aspirations socialistes et anarchistes ont toutes à voir de très près avec cette tradition qui n’est pas une religion au sens classique du terme en sociologie, mais une culture dont nous étions imprégnés parce que nos maîtres, les Rousseau et les Marx en étaient si profondément imprégnés. Ce qu’il faut bien appeler la culture occidentale est dans son essence une culture de la liberté et de l’émancipation et c’est pourquoi la défense de la culture occidentale, la défense de la « grande culture » autant que la « culture populaire », tout qui ce qui est aujourd’hui marqué au sceau de l’infamie rétrograde, passéiste, ringarde et réactionnaire, toute cette nostalgie de la culture du « mâle blanc hétéronormé », est tout simplement la conservation d’un possible monde meilleur.

Car ce dont il s’agit, ce n’est pas de faire table rase du passé mais de conserver le monde, c’est-à-dire le monde de l’homme, un monde dans lequel la nature est la condition ultime de notre survie et où les rapports d’amitiés entre les hommes et les femmes puissent encore avoir toute leur place, loin de la furie des censeurs, des excommunicateurs, des identitaires de tous poils qu’il s’agisse de l’identité « de genre » ou de religion.

Il s’agit donc aussi de conserver ce qui rend possible cette conservation du monde, afin que les « nouveaux », les Nachgeborenen dont parlait Brecht, puisse venir et vivre. Et pour que cette transmission, ce passage de témoin d’une génération à l’autre puisse se faire, il est nécessaire que les plus âgés soient les conservateurs d’un monde où les nouvelles générations pourront être révolutionnaires. La destruction de l’autorité — dont parle Hannah Arendt — est une des conséquences de l’avènement d’un monde social dans lequel tout doit en permanence être révolutionné et où toutes les valeurs cèdent le pas à la valeur, sonnante et trébuchante, qui circule sur le marché. Dans un tel monde l’autorité des parents ou des professeurs ne possède plus aucune légitimité. Combien valez-vous ? Telle est la seule question que les jeunes générations apprennent à poser à leurs aînés. Une affaire très révélatrice : le représentant de la CGC au conseil supérieur de l’éducation, René Chiche, dépose un amendement à la charte de l’enseignement précisant que l’autorité des professeurs face aux élèves et aux « parents d’élèves » doit être respectée. Cet amendement qui procède du simple bon sens a été très largement rejeté. Il est devenu incongru d’évoquer l’autorité dans les sphères dirigeantes de ce qu’il est encore convenu d’appeler « éducation nationale ». Cette perte de l’autorité naturelle de ceux qui doivent élever la jeune génération s’accompagne d’une montée sans précédent d’un autoritarisme tatillon fondé sur la multiplication des lois.

Dans le monde d’où l’autorité a disparu au profit du contrôle social, le simple bon sens, le sens commun s’est effondré : surtout ne plus dire « bonjour Madame » à une dame, car celle-ci pourrait être dans un état d’esprit tout provisoire où elle se sent un homme. Dans le film de Truffaut Baisers volés, Delphine Seyrig enseigne le jeune Jean-Pierre Léaud de la distinction entre le tact et la politesse : un homme entre par inadvertance dans une salle de bain où une dame nue fait sa toilette. L’homme poli referme la porte en disant : « pardon, Madame ». Celui qui sort en disant « Pardon, Monsieur » a du tact. Voilà un subtil distinguo qui échappe à notre époque où les hommes publics parlent comme des charretiers et où se montrer prévenant à l’égard d’une femme vous fait passer au mieux pour un gros « relou » quand ce n’est pas un violeur potentiel. Dire qu’il faut un père et une mère pour faire un enfant (un papa et une maman, dira-t-on dans le langage mièvre de l’époque) vous vaut d’être illico presto assimilé à la droite réactionnaire et aux nostalgiques des heures les plus sombres de notre histoire… Face aux délires, être conservateur c’est simplement essayer de rester raisonnable.

Être conservateur, ce n’est pas refuser l’innovation ou les idées nouvelles. C’est seulement refuser de céder au « bougisme » pour reprendre l’expression de Pierre-André Taguieff. Refuser cette danse de Saint-Guy devenue la loi imposée par les sommets du capital « high tech ». Le capital a besoin d’individus tous interchangeables, des mêmes ramenés à quelques équations des spécialistes du marché. Le nouveau capitalisme est sans foi ni loi, il est partout et donc nulle part. Il est tout-puissant. Il est le nouveau Dieu. Mais alors que l’ancien était parfaitement inoffensif (le soupir de la créature opprimée, disait Marx) le nouveau Dieu a besoin continuellement de sang frais pour nourrir son impérieux mouvement d’accumulation. S’il fallait vraiment choisir, je préférerais encore le Dieu des chrétiens, ce Dieu humble qui s’est fait homme, est né dans une étable et devant qui les puissants, symbolisés par les rois mages sont venus s’agenouiller.

Ce que nous devons conserver, c’est aussi un certain sens de la beauté des choses, ce que l’Italie d’avant les horreurs post-modernes a cultivé avec constance et génie. Beauté des œuvres d’art quand elles n’étaient pas des « performances » de propres à rien en pleine crise. Lire et méditer ce que nous dit Jean Clair dans L’hiver de la culture. Se souvenir d’Adorno et Horkheimer : « Aujourd’hui, la barbarie esthétique réalise la menace qui pèse sur les créations de l’esprit depuis qu’elles ont été réunies et neutralisées en tant que culture. Parler de culture a toujours été contraire à culture. » (T.W. Adorno et M. Horkheimer, La production industrielle des biens culturels) On ne saurait mieux résumer le discours sur la culture courant de nos jours : un discours qui détruit toute culture. Il ne s’agit pas que des créations de l’esprit. La nature est mise à sac par les aménageurs, les bétonneurs — pensons aux hideuses surfaces commerciales des villes — et la campagne est défigurée, transformée en site industriel par l’invasion des éoliennes, géants de béton et d’acier qu’aucun Don Quichotte ne se risque à combattre.

Conserver le passé, c’est le seul moyen de rendre vivable le présent et d’entrevoir une lueur dans le futur. Les révolutionnaires en peau de lapin à la Mélenchon, qui considère que le passé n’a rien à nous apprendre et que nous sommes les héritiers du futur, ne font que ressasser comme des élèves un peu idiots la leçon du capital : « faites-vous vous-mêmes », « soyez des vrais self made men » et les voilà qui volent au secours de toutes les aberrations ultramodernes. Avant de terminer leur course, misérablement, oubliés dans un coin de l’histoire ou aplatis comme des carpettes où les oligarques se frottent les pieds — ainsi Tsipras en Grèce ou Iglesias en Espagne. Tous ces « progressistes » sont de fieffées canailles. Et avec eux les intellectuels qui presque tous ont sombré dans l’abjection. On peut admettre qu’il fut un temps où les intellectuels « de gauche » ont joué un rôle utile, précieux pour le genre humain. Mais ce temps est passé. Conserver l’espoir d’une société décente : voilà ce qui nous reste.

Le 24 décembre 2020

PS: Cet article est illustré par une photo de l'admirable groupe dû a Bernini, représentant Enée qui fuit Troie en portant son père Anchise sur son dos et tenant par la main son fils Ascagne. Pierre Legendre a attiré notre attention sur l'inestimable valeur symbolique de cette œuvre. Tout le destin de l'homme s'y trouve résumé. Et cela que l'on veut refouler aujourd'hui. 



mercredi 9 décembre 2020

La science, ça sert à faire la guerre

On apprend que le comité d’éthique de l’armée française vient de donner son feu vert à la recherche en vue de fabriquer un « soldat augmenté », mais « éthique ». La plupart des grandes armées au monde sont déjà activement engagées dans la production de « superhéros » à la Marvel. Américains, Chinois et Russes font toutes sortes d’expérience pour améliorer la vision nocturne des soldats, grâce à des greffes sur la rétine, des essais d’exosquelettes pour permettre de porter de lourdes charges, des drogues permettant de supprimer, autant que faire se peut, le besoin de sommeil, la greffe de puces pour la géolocalisation, la coordination entre le regard et la visée des canons, voilà quelques-unes des pistes de l’homme augmenté. L’armée française refuse, pour l’heure, toutes les techniques « trop invasives » et qui pourraient mettre en cause le libre arbitre du soldat. Mais, comme toujours, ces précautions de langage du comité d’éthique des armées n’ont d’autre justification que de donner des coups de pinceau de moraline sur ce qui est largement engagé et qu’il faudrait poursuivre, pour la bonne raison que l’armée française ne saurait se laisser distancer sur ce terrain par les autres armées.

Le transhumanisme est en route et, comme toujours, c’est l’industrie de la guerre qui sert de volant d’entrainement. Il est loin le temps où l’on faisait monter les soldats à l’assaut en les droguant à la gnole ! La science est passée par là. Il ne s’agit pas seulement de la guerre que sont les ethnies, les tribus, les empires ou les nations. Il s’agit de la guerre que mènent les puissants contre les peuples. La science sert à surveiller, contrôler, manipuler et réprimer. Mais il s’agit aussi de la guerre qui est menée à l’humain comme tel. Car ces soldats augmentés préfigurent l’humanité de demain, une humanité qui ne méritera plus ce nom, puisque partout on remplace l’homme par toutes sortes de dispositifs mécaniques : robotisation, « intelligence artificielle », biotechnologies. Il ne s’agit plus d’utiliser la science pour alléger la peine des hommes, mais d’asservir l’humanité à la logique du capital qui n’est rien d’autre que du travail mort. Les humains deviennent de simples rouages indispensables de la grande machinerie. Les analyses de Marx, qui ont plus d’un siècle et demi, trouvent une confirmation éclatante dans notre ère du « capitalisme absolu ». Car, bien sûr, ce qui se teste dans le domaine militaire a d’ores et déjà des applications civiles. Le « puçage » des individus à des fins de reconnaissance et d’identification a déjà été expérimenté dans une entreprise suédoise. En repoussant les bornes du sommeil, on pourrait aussi mettre à profit la journée entière pour la production de plus-value. Faire sauter les barrières physiques de la journée de travail est un vieux rêve des capitalistes (voir encore Marx, Capital, livre I, chap. VIII). Le travail en réseau permet l’accaparement de toute la vie par la production de valeur. Plutôt que dépenser des fortunes pour mettre au point des robots qui ne remplaceront jamais l’habilité et la capacité de décision d’un humain, c’est la robotisation de l’homme qui est à l’ordre du jour.

Certes, le progrès scientifique et technique nous apporte des bienfaits (plus limités qu’on ne croit d’ailleurs) qui viendraient contrebalancer les menaces que le « progrès » fait peser sur nous. On n’attrape pas les mouches avec du vinaigre ! Mais on atteint d’ores et déjà un certain nombre de limites : l’espérance de vie n’augmente plus et le frein à l’accroissement démographique (une absolue nécessité) entraine un vieillissement de la population dont on est loin d’avoir exploré toutes les conséquences. L’épuisement des ressources d’énergie fossile va contraindre l’humanité à moins compter sur ses prothèses mécaniques. Enfin, l’utilisation massive des biotechnologies appliquées à l’humain nous mène au bord de l’abîme. L’optimisme technologique n’est décidément plus de mise. Mais le perfectionnement impressionnant des moyens de la guerre indique dans quelle direction se précipite, aveuglée, la majeure partie des élites dirigeantes. Une bonne guerre, il n’y a rien de tel pour « dégraisser » la machine capitaliste et obtenir la soumission des individus.

Denis Collin, le 9/12/2020

lundi 23 novembre 2020

Préface à l'édition roumaine du livre de Diego Fusaro, L'Europe et le capital

Diego Fusaro est un philosophe qui prend Marx au sérieux. Si les philosophes n’ont fait qu’interpréter le monde de différentes manières, il s’agit aujourd’hui de le transformer et Diego Fusaro ne fait pas de la philosophie pour passer le temps. Il fait de la philosophie pour mieux comprendre la réalité sociale qui est la nôtre et pour aider à la transformer. Fusaro a annoncé le retour de Marx (Bentornato Marx) et dans L’Europe et le capitalisme, il montre que le spectre de Marx hante encore la vieille Europe.

Pour comprendre ce qu’est l’Union Européenne, il faut prendre la question dans toute son ampleur. L’UE est la matrice de ce que Fusaro analyse comme le « capitalisme absolu », mettant en œuvre à sa manière les catégories hégéliennes du développement de l’esprit. C’est en effet dans l’espace de l’UE que la « gouvernance économique » s’impose face au gouvernement politique, et c’est encore dans cet espace qu’est poussée l’entreprise de destruction des États-Nations au profit de la toute-puissance du capital financier. Le programme de « dépolitisation » mis en œuvre par les gouvernements d’Europe vise à éradiquer l’idée que la politique puisse quelque chose pour endiguer la puissance du capital. L’euro, monnaie unique de la majorité des pays de l’UE, exprime parfaitement la nature de l’entreprise. On a souvent l’idée que la monnaie est un instrument des échanges et comme telle, elle serait neutre. À juste titre, Fusaro montre qu’il n’en est rien : l’euro est le fondement du capitalisme absolu et loin d’être un moyen neutre, il est une arme, meurtrière, contre les peuples.

Il ne s’agit pas d’être « contre l’Europe ». Cela n’aurait aucun sens et à bien des égards il n’y a guère plus européen que les penseurs comme Diego Fusaro. Comme tous les philosophes, il est nourri de la pensée philosophique de tous les pays d’Europe, Kant, Fichte, Hegel et Marx pour la grande tradition de la philosophie idéaliste allemande, mais aussi la philosophie grecque, Descartes, Spinoza, les philosophes italiens, de Machiavel à Gramsci, et tant d’autres à qui nous sommes infiniment reconnaissants. Pour Fusaro, il s’agit de dénoncer cette « Union Européenne » entièrement occupée à la destruction des meilleures traditions de l’Europe, à la destruction des États-Nations qui lui ont donné chair et sang, à la destruction des langues européennes remplacées par une langue fonctionnelle au monde de la marchandise, le business english (le globish).

Comment rouvrir le futur ? Voilà la question épineuse, celle où l’on attend Fusaro au tournant. L’histoire n’est pas écrite d’avance car « les hommes font eux-mêmes leur propre histoire » (Marx) ou encore Le futur est nôtre (Fusaro). Mais une fois convaincus que nous pouvons agir, que faut-il faire ? Le plus important peut-être est de comprendre que les schémas politiques du passé ont perdu toute valeur. Le clivage droite/gauche, le plus souvent, fut un trompe-l’œil. Le véritable clivage est entre le haut et le bas. Et c’est résolument aux côtés de ceux du bas qu’il faut se tenir, seule position d’où l’on peut bien connaître ceux d’en haut, ces « grands » qui ont pour seule obsession de dominer le peuple (Machiavel). Diego Fusaro a soutenu le « Mouvement Cinq Etoiles » jusque dans l’alliance avec la Lega de Matteo Salvini, parce qu’il y a vu un moyen de résister au capitalisme absolu, celui que défend le « centre-gauche » du PD aussi bien que le centre-droit de Berlusconi, un moyen d’ancrer une résistance populaire de la nation italienne contre l’UE, afin de défendre les droits sociaux. Quel que soit l’avenir de la coalition, la prise de position politique de Fusaro est claire et doit être méditée par tous ceux qui combattent pour l’émancipation des travailleurs : « Quand les blés sont sous la grêle, fou qui fait le délicat.  Fou qui songe à ses querelles au sein du commun combat » (Louis Aragon, La Rose et le Réséda).

mercredi 21 octobre 2020

La laïcité n’est pas la neutralité


Le combat pour évider la laïcité de tout contenu et la ramener à un vague principe de tolérance adapté à une « société multiculturelle » sur le modèle anglo-saxon est engagé depuis longtemps. Les grandes organisations « laïques » françaises, comme la Ligue de l’enseignement, se sont souvent ralliées à la « laïcité ouverte », pléonasme douteux dont le seul but est d’indiquer qu’on doit sortir du principe de laïcité tel qu’il a été formulé au début du siècle dernier. L’organisme dit « Observatoire de la laïcité », dirigé par l’ancien ministre socialiste Jean-Louis Bianco et convenablement financé sur les deniers publics — c’est-à-dire l’argent des citoyens — est devenu un des organes de la lutte contre la « laïcité à la française ». Les militants laïques sont maintenant couramment qualifiés de « laïcards », un terme que les gauchistes de tous poils empruntent, sans le savoir à Charles Maurras, l’âme de l’Action Française : « Père, pardonne-leur, ils ne savent pas ce qu’ils font » (Luc, 23:34) ! On nous explique ici et là que la laïcité, c’est la neutralité ou c’est une position d’équilibre entre les diverses croyances religieuses. Il est temps de tordre le cou à ces inepties.

La laïcité n’est pas neutre parce qu’elle est une prise de position politique et juridique qui exclut la religion de l’organisation politique des citoyens. Or plusieurs religions comme jadis le catholicisme et encore aujourd’hui l’islam supposent précisément que la religion a vocation d’organiser la vie sociale et politique. Pour ces religions, le véritable mariage est religieux, le véritable enseignement des enfants inclut l’enseignement des préceptes religieux et les lois civiles ne doivent pas contrevenir à la loi divine. Or, la laïcité est exactement l’inverse.

En France, le mariage religieux n’a aucune valeur légale et seul compte le mariage civil. L’Église catholique condamne le divorce, mais celui-ci est légal depuis la Révolution confortée par le Code civil. La République italienne, à sa fondation, est devenue une république où l’État et l’Église sont séparés, mais la laïcité y reste un long combat ! De nombreuses lois concernant le divorce ou l’IVG ont été adoptées contre la mobilisation de la puissante Église italienne, mais ce ne fut pas sans mal. Le divorce fut l’objet d’une bataille épique et a nécessité trois lois, à partir de 1970, pour devenir vraiment un divorce civil proche des conditions françaises. On ajoutera qu’en France, il est interdit de marier des enfants mineurs. Il faut avoir 18 ans pour se marier. Mais dans de nombreux pays musulmans et conformément à l’enseignement de la charia, les enfants — c’est-à-dire essentiellement les filles peuvent être mariées bien plus tôt. Le Prophète n’ayant pu commettre d’actes illicites, son exemple pourrait suffire pour définir la loi : il a épousé Aïcha âgée de six ans et le mariage a été consommé quand Aïcha eut neuf ans… Aux yeux de la loi française, un homme qui suivrait l’exemple du prophète serait considéré comme un pédophile et un violeur et irait croupir en prison pour un bon moment. On peut discuter de l’authenticité de la chose, mais l’islam reposant largement sur les exemples de la vie de Mahomet, que ces exemples aient été inventés ou non ne change rien à l’affaire — au demeurant l’historicité du soi-disant prophète est largement sujette à caution… et même encore plus douteuse que l’historicité de Jésus, qui semble ne plus faire beaucoup de doute, même le « vrai » Jésus n’est pas forcément le personnage des évangiles. Certains pays arabes comme la Jordanie et l’Égypte, moins barjots que les fanatiques de la sunna ont fixé des âges au mariage des filles dans les normes européennes (17 ou 18 ans). En tout cas, la laïcité implique que la loi civile est supérieure à n’importe quelle tradition religieuse ! Ce qui est contradictoire avec l’enseignement de ces « grandes religions ». Or les traditionalistes affirment la supériorité de la loi divine sur la loi civile. Il y a bien un conflit et être pour la laïcité n’est pas être neutre dans ce conflit, mais prendre parti pour la supériorité de la loi civile.

L’enseignement public en France, depuis 1882, doit être laïque, c’est-à-dire ici « areligieux ». Non pas antireligieux, puisque les maîtres n’ont pas à vouloir changer les convictions religieuses des élèves, mais la religion, en tant que foi, ne doit en aucun cas entrer dans le contenu des enseignements et il ne doit y avoir aucun signe religieux dans les écoles. Les catholiques appelaient cette école « l’école sans Dieu » et cherchèrent parfois à soustraire leurs enfants à cet enseignement jugé « impie ». En tout cas, à l’époque, globalement les républicains ont tenu bon. Certes les enseignants laïques doivent être neutres. Dans l’exercice de leur magistère, ils n’ont pas à faire part de leurs opinions politiques ou religieuses. Mais cette neutralité découle du fait que le maître ou le professeur transmet des connaissances objectives. La terre est ronde et tourne autour du soleil, même si les « textes sacrés » de telle ou telle croyance disent le contraire. La théorie de l’évolution est vraie (dans la mesure où une théorie scientifique peut être vraie) et elle n’est pas une croyance parmi d’autres. L’histoire est l’exposé de faits objectifs et rien d’autre ! On doit ou on devrait y enseigner aussi bien la traite négrière que la traite organisée par les Arabes. Et la neutralité en matière historique consiste à accorder que les nazis ont bien organisé l’extermination des Juifs d’Europe, que ce n’est pas une « croyance » propagée par les « sionistes »… Sur ces questions et comme sur tant d’autres nous voyons que la laïcité n’est pas « tolérante » ni spécialement « neutre » puisqu’elle prend le parti de la raison et de l’examen scientifique des faits et se moque de savoir si cela contredit telle ou telle croyance religieuse. L’école laïque dévalorise les croyances au profit du savoir objectif rationnel. C’est un engagement clair que contestent les ennemis de la laïcité, les religieux autant que leurs idiots utiles, les partisans de la soi-disant « laïcité ouverte ».

La neutralité exigée des agents du service public a donc un sens très précis et l’interdiction d’exercer ses fonctions en arborant la manifestation de ses croyances signifie bien que la religion est une affaire privée et seulement une affaire privée. Tout cela découle d’une conception de l’État beaucoup plus ancienne que les lois laïques françaises. Cette conception est celle de la souveraineté en général et de la souveraineté du peuple en particulier. Dès lors que le roi s’annonce comme pouvoir souverain, il affirme clairement que l’État n’a pas à se soumettre à la religion, mais qu’au contraire, celle-ci doit se soumettre à l’État. Pour un esprit religieux, le seul souverain est Dieu et aucune loi n’est supérieure à la loi de Dieu. L’affirmation de la souveraineté de l’institution politique, qui contient les germes de la laïcité, est déjà une affirmation contraire au dogme religieux. Avec la proclamation de la liberté de conscience et donc de la liberté de ne pas croire, on franchit un pas considérable — la Révolution française jette les jalons, et l’empire ne remettra pas cela en cause, d’une conception qui émancipe le citoyen de la servitude religieuse et promeut au contraire l’autonomie du sujet au sens kantien du terme.

Répétons-le : dans la conception politique qui est la nôtre et qui est partagée par tous les grands pays démocratiques, même ceux qui sont un peu moins laïques que la France, la loi suprême est la loi civile. Les croyants peuvent bien condamner l’IVG, le divorce ou la luxure, ils peuvent parfaitement s’appliquer à eux-mêmes ces condamnations et ces interdits — personne n’est obligé d’avorter, de divorcer ou de se livrer à la luxure ! Mais personne, pas une autorité quelle qu’est soit, ne peut empêcher les individus d’user des droits que la loi leur reconnaît. Si la laïcité de l’État était neutre, elle devrait mettre sur le même plan, considérer comme équivalents, le droit au divorce et l’interdiction du divorce, le droit à l’IVG et l’interdiction de l’IVG, ce qui serait parfaitement absurde. Comme une loi doit toujours s’appliquer en tenant compte de certaines réalités, on a reconnu aux médecins le droit à faire valoir la clause de conscience dans le cas de l’IVG, parce que l’opposition à l’IVG n’est pas spécifiquement une affaire religieuse, mais peut renvoyer à des attitudes morales plus générales — le philosophe Marcel Conche, matérialiste et athée est fermement opposé à l’IVG. En revanche un médecin témoin de Jéhovah ne pourrait pas s’opposer à une transfusion sanguine qui sauverait un patient. Il y a donc sans doute toute une casuistique pour traiter les cas-limites.

On le voit donc, la laïcité est engagée et elle a à garantir l’espace public contre l’invasion des groupes religieux qui voudraient y faire régner leur loi. Au contraire le principe anglo-saxon de tolérance repose sur la reconnaissance des croyances religieuses comme acteurs légitimes dans l’espace public. C’est pourquoi la Grande-Bretagne et le Canada admettent que la loi islamique soit appliquée dans la sphère du droit civil pour les mariages, les divorces ou l’héritage, chose qui, jusqu’à aujourd’hui, serait inimaginable en France. Le principe de tolérance s’accommode très bien de l’existence d’une religion d’État et peut considérer le blasphème comme un crime ou un délit. Au contraire dans une république laïque, le blasphème ne peut être un objet de décision juridique puisque le blasphème n’existe que relativement à la croyance. Remarquons qu’un chrétien pourrait considérer comme blasphème la position de Juifs qui tiennent Jésus pour une sorte d’imposteur ou celle des musulmans qui ne tiennent simplement pour un prophète et non pour le « fils de Dieu ». Les religions sont les unes pour les autres toutes blasphématrices. C’est d’ailleurs un argument supplémentaire pour renvoyer les religions dans la sphère privée et fonder l’État sur des principes laïques.

Communisme et communautarisme.

Par  Carlos X. Blanco Le communautarisme de Costanzo Preve se démarque de tout mouvement intellectuel nostalgique qui cherche à rétrograde...