lundi 18 septembre 2017

Per una critica della filosofia politica



          Impostazione del problema
Che cosa possono fare i filosofi in materia di politica? Che cosa la politica ha da fare colla filosofia? È cosi che capisco l’interrogazione a cui ci invita la rivista Koinè. Cio che si può ancora tradurre altrimenti: cos’è lo status della filosofia politica?
La locuzione “filosofia politica” è problematica perche sembra un pleonasmo:  la filosofia, fin da la sua nascita in Grecia, fu politica. La filosofia di Platone e, da una parte all’altra, una filosofia politica. Nel Gorgias, Socrate lo dice: “Sono uno fra i rari Ateniesi, per non dire il solo, chi si dedichi al’arte politico.” (521d) Ora, secondo Whitehead, “la filosofia occidentale non è altro che un seguito di note in pie di pagina ai dialoghi di Platone”. E, di fatto, non c’è uno solo grande filosofo da cui la dimensione politica non fosse fundamentale. Secondo Aristotele, la politica è la “scienza architettonica” che ordina l’etica. Benche si tratti qui del svalorizzare della vita politica, la più grande opera d’Agostino è certamente la sua “filosofia politica”, La Città di Dio. Se la dimensione politica è evidente per Spinoza, Rousseau, Kant e Hegel, si obsserverà anche che un filosofo cosi Descartes, chi aggira con cura ogni diretta presa di posizione nel campo politico (larvatus prodeo!) propone una filosofia di cui le implicazioni politice sono importanti.
Ogni filosofia è politica nella sua essenza, poiché, ponendo la domanda centrale della possibilità e del statuto della verità, essa  define, le condizioni dell’enonciazione vera e, dunque, le condizioni e le forme del dibattito pubblico, anche se questo dibattito è limitato o deve limitarsi alla comunità dei dotti. La filosofia di Platone, nella sua feroce battaglia contra i sofisti e contra la tesi attribuata a Protagora secondo cui “l’uomo è la misura d’ogni cosa”, è vero e proprio una battaglia filosofica. E per cio, tutti i dialoghi di Platone sono politici, e non solo La Repubblica, Il Politico, o Le leggi. Per le stesse ragioni, ma in senso inverso, la metafisica del Aristotele, e la teoria della conoscenza che e congiunta ad essa, ordina ampiamente il giudizio che porta sul migliore dei governi e, in particolare,  sulla possibilità che tale migliore dei governi fosse questo della larga ceta media. In tutto un altro ordine di idee, quando Descartes, nella sesta parte del “Discorso del metodo” annuncia che la nuova scienza che egli vuole fondare, sarà principalmente utili e che permetterà l'uomo di "diventare come maestro e possessore della natura", è indicato il programma politico della modernità.
Per quanto non si può abrogare ogni distinzione fra i diversi rami della filosofia, anche se si può contestare la kantiana fratturà fra la ragione pura nel suo uso teorico e la ragione pratica. Le norme della vita buona e della politica non scaturiscono, in univoco modo, dalla conoscenza che possiamo avere della nostra realità e della realità del mondo in cui viviamo. La  prudenza pratica è chiamata al soccorso di una teoria che viene meno. Anche se per un spinozistà contestando l’esistenza di una facoltà della volontà diversa del intelletto, cio che devo fare è sempre l’effetto adegueto di cio che capisco, cosi pratticamente non posso concepire compiutamente la concatenazione delle idee cosi come esse sono produtte “in Iddio”, ne consegue che, il più spesso, l’agire dipende dell’immaginazione e dell’opinione più della ragione dretta.
Cosi, qualsiasi modo di cui si prende il problemà, si dève ammettere che ci sono buone ragioni di distinguere la filosofia politica della filosofia in genere, come anche si può distinguere la riflessione normativa della teorià generale della vità sociale.
Col marxismo di un lato, lo sviluppo delle scienze sociale dal’altro, il Novecento, prima, ha veduto la relativa cancellatura della dimensione morale e politica della filosofia. La conoscenza scientifica delle società umane e quella della mente umana non permettereberrò d’agire sull’uomo come si age sulle cose? Michel Foucault conclude l’ultimo capitolo di Le parole e le cose, capitolo consacrato alle scienze umane, evocando la cancellatura del’uomo come “alla confine del mar un viso di sabbia”. Se i comportamenti umani e le forme dell’organizione sociale sono di competenza della positività delle scienze umane, in ogni caso è la dimensione normativa del pensiero che è messa fuorigioco. Dal suo lato, il marxismo “standard” conduce a una conclusione dello stesso genere. Le “leggi della storia” si impongono chiunche siano le volontà umane e i marxisti si difendono generalmente da lottare contro il capitalismo per ragioni morali. Il capitalismo, dal suo tempo, era “nel senso della storia”. I marxisti constatano che il tempo del capitalismo è obbiettivamente terminato e che esso dève lasciare il posto a un modo di produzione superiore. Da qualsiasi lato si torna, l’epoca è “al di là del bene e del male”.
Il ritorno in vigore della filosofia politica è chiaro dagli anni settanta, prendendo la contro-piedi della filosofia delle scienze, del marxismo e della  psicoanalisi che sembravano avere dominato tutto il campo della ricerca in Filosofia nel Novecento.
Alla stessa epoca, l’ultimo erede della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, effetua una svolta che l’allontana definitivamente da Marx e dalla teoria critica e torna a un “kantismo” assai insipido e adattato ai nuovi oggetti della riflessione habermassiana, cioè la « democrazia post-nazionale » che starebbe realizzandosi nell’Unione Europeana. Questa via seguirono anche i filosofi italiani come Salvatore Veca oppure i Francesi come Jean-Marc Ferry – un discepolo di Habermas. In questo dibattito, si deve anche segnalare l’importante ruolo giocato dal’economista Amartya Sen.
Partando dalla filosofia di John Rawls, mostrerò che il tentativo di costruire una teoria politica pura, indépendante di ogni concezione sostanziale di vita buona  è una chimera. In secondo luogo, cercherò di mettere a fuoco i vivoli ciechi del marxismo standard, che rinviano ad un malinteso del proprio posto  della politica – la quale non scaturisce automaticamente dall’analisi dello sfrutamento capitalistico. Finalmente, sostenrò la necessità di tornare ad una globale concezione della filosofia.

          La contraddizione fondamentale della teoria della giustizia di Rawls

Per bene capire cio che è in causa, cominciamo dunque colla Teoria della Giustizia de Rawls (da ora in poi TG). Rawls cerca di stabilire i principi fondamentali di una società bene ordinata, partendo dal fatto del pluralismo. Per questo scopo, si deve scartere tutti globali concezioni del bene, poiché queste sono sempre più o meno  legate ad une fede religiosa o ad un pensiero metafisicoche le rendono inabiliper la fondazione dei principi di una società pluralistica. I principi di giustizia non possono implicara, di un modo o un altro, una concezione determinata del senso dell’esistenza umana. Debbono essere neutrali quanto alle fini ultime se vogliono essere oggetto possibile di uno stabile consenso per intersezione su un grappolo di valori politici fondamentali.
Rawls vuolè mostrare che si può trovere una procedura imparziale che dia una giustificazione dei principi di giustizia. Una TG in grado d’essere l’oggetto di un consenso per intersezione non può essere che procedurale se si vuolè evitare ogni contestazione che inevitabilmente nascerebbe poiche diversi concezioni delle bene potrebbero affrontarsi. Rawls non è solo da pensare cosi: la filosofia del diritto e la filosofia morale contemporenee sono, fondamentalmente, filosofie procedurale, che concipono la stessa democrazia come una procedura permettenta la coabitazione di individui égoisti in una societa regolata dalle leggi del mercato. Il mercato come procedura cieca d’allocazione delle resorse e perfino presentato come il prototipo del sistema “neutrale quanto ai valori.

La giustificazione procedurale cade in uno circolo vizioso

La giustificazione procedurale non è un fronzolo dei principi di giustizia di Rawls ; essa mira a mostrare che si può emancipare la TG di ogni concezione del bene e di renderla compatibile col’ambito liberale borghese dove si spiega. Per Rawls è un argomento importante : la TG deve esserere compatibile colle società democratice esistante, cioè, grosso modo, colle società capitalistice come erano alla fine degli anni Sessanta.
I principi di giustizia, principio d’uguale libertà per tutti e principio di differenza – cioè il principio che giustifia le disuguaglianze quando sono a vantaggio di ciascuno e fruttano, in primo luogo, ai più svantaggiati –, sarebbero, secondo Rawls, i principi che scelterebbero individui razionali, posti sotto il velo d’ignaranza e usando solo la strategia del MAXIMIN, proveniente dalla teoria dei giochi.
La procedura del velo d’ignoranza è concipita come imparziale, comme una regola di gioco.  Dunque suppone che i legislatori, posti sotto il velo d’ignoranza abbiano già accettato di giocare il gioco! I principi de giustizia scaturiscono da una procedura imparziale, ci dice Rawls. Tuttavia, la giustizia e l’imparzialità non sono due nozioni straniere. L’imparzialità è già una certa idea della giustizia, una idea molto generale, ridotta alla sua più semplice espressione, pero una idea della giustizia ; vuole dire che tutti gli individui debbono essere trattati nel stesso modo. Suppone dunque l’ugualianza dei diritti. In altre parole, non si può concipire una procedure capace di stabilire i principi di base di una società giusta, senza avere già una certa concezione della giustizia, anche riassumeta alla liberté e l’ugualianza. Dunque è naturale che  la procedura del velo d’ignoranza produca il principio d’uguale libertà per tutti poiché questo principio è al fondamento della costruzione intellettuale di Rawls. Un individuo participando, sotto il “velo d’ignoranza” all’elaborazione dei principi di una società giusta è qualcuno che ha già una certa concezione del buono. Per esempio, il Callicles del dialogo di Platone non accetterebbè la regola del gioco di Rawls. Socrates non invalida le tesi di Callicles usando di una procedura, ma mostrando che esso non sappia cio che dice, perchè ha abandonato il terreno del vero e del bene. In oltre parole, la TG di Rawls,  pretendendo appoggiarsi sulla pura procedura, assomiglia al barone di Munchausen chi voleva uscire dal  palude tirando sui propri stivali.
C’è un secondo problemà: Rawls critica severamente l’utilitarismo, perchè questa dottrina non potesse produrre i fondamenti politici di una società bene ordinata. In effetto, l’utilitarismo, admettando una dottrina del sacrificio di certi individui se questo sacrificio è utile alla massimizzazione della felicità comune, rinuncia al stesso tempo a trattare gli individui come possessori di diritti inviolabili. Però, c’è forse una dimenzione utilitaristica nella TG di Rawls poiché il principio di differenza è giustificato dalla sua efficienza e la cresciutà del benessere – la disuguaglienza è giustificata se è al più grande vantaggio di tutti. Ma Rawls non dice perchè occorre ammettere che una società non egualitaria e ricca è più giusta di una società egualitaria e più povera? L’uguaglianza è più favorevole all’amicizia della disuguaglianza e si può preferire degli amici poveri a dei nemici ricci!
È di tanto più curioso che c'è da Rawls una vera tensione perché sembra trovare spesso abbastanza ripugnante la corsa all'arricchimento nelle nostre società e, poi, perché il principio di differenza al di là della sua giustificazione per l'efficacia può ricevere un'interpretazione più radicale che la TG non esclude (Vedere Jacques Bidet,  John Rawls et la théorie de la Justice, PUF, 1995, collection « Actuel Marx Confrontation).

Il principio di differenza è indeterminato

I principi di giustizia della TG potereberro essere l’oggetto di un consenso per intersezione,  proprio perchè sono indeterminati. La TG sarebbe un coltello senza lama.
In effetto, il principio di differenza è, in realtà, basato sull’optimum di Pareto: una distribuzione è un optimum de Pareto se ogni tentativo di migliorare la situazione di uno dei soci non può farsi che a detrimento di un altro. Breve, non si può modificare la ripartizione che finché tutti guadagnano. Il problema è che questo tipo di ripartizione è fondamentalmente indeterminato. Se le disuguaglianze sono giuste dal momento che la situazione di più sfavoriti è migliorata, allora le più grandi disuguaglianze possono essere giustificate. Dopo tutto, uno degli argomenti in favore della libertà del mercato è che l'aumento delle disuguaglianze sia compensato da un miglioramento del livello di vita di più poveri. Si potrebbe ammettere anche come giusta una ridistribuizione a sfavore di più poveri al motivo che sarebbe meno cattiva del mantenimento dello statu quo: abbassare gli stipendi permette di aumentare i profitti e di creare degli impieghi per domani, dicono gli economisti liberisti : ecco che potrebbe essere perfettamente compatibile con una versione moderata del principio di differenza.
Poi, Rawls analizza la società pressappoco come se era composta unicamente di salariati o di produttori indipendenti che scambiano su un mercato. Sono messi fuori circuito i rapporti di proprietà e le diverse forme di rapporti di dominio.
Ci sarebbe a scavare questo aspetto : le presupposizioni individualistiche di Rawls - il suo eredità rousseauisto e kantiano - vietano concepire la società come un strutturato, cioè come un insieme in che gli individui dipendono uni dagli altri dei diversi modi. Ora i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione costituiscono l'elemento decisivo di questa struttura sociale, decisivo a due titoli:
1.       Le disuguaglianze nella proprietà e quelle generate dalla proprietà sono molto più importante delle disuguaglianze di redditi del lavoro, salariato o meno, e nella misura in cui conseguono tanto e stesso più dell'eredità, cioè di privilegi di nascita, delle differenze di talenti o di merito, sono le meno giustificabili.
2.       I rapporti di proprietà non sono semplicemente dei rapporti degli individui alle cose ma dei rapporti che danno ad un individuo potere su un altro individuo: è tipicamente il caso del rapporto salariato.
L'indifferenza manifestata da Rawls sulla questione della proprietà ridurrebbe la TG ad una semplice giustificazione dello stato keynesiano, del “welfare”, ma precisamente ad un momento dove il “welfare” è entrato in crisi. Rawls afferra chiaramente che il contratto è la forma il più generale della società moderna il suo ”metastruttura”, siccome lo direbbe Jacques Bidet. Ma il contratto nel processo storico concreto che lo vede diventare progressivamente dominante posa simultaneamente d’un lato l'uguaglianza tra i cittadini e la libertà e, del altro lato, il dominio. Su questo punto si può leggere il capitolo VI, sezione II del libro I del Capitale di Marx.
Rawls riassume così il principio di differenza : “tutti valori sociali, libertà e possibilità offerte all'individuo, redditi e ricchezza, così come le basi sociali del rispetto di sé stesso devono essere ripartite ugualmente a meno che una ripartizione disuguale di un'o di tutti questi valori sia a favore di ciascuno.”
Questa formulazione fa del principio di differenza un principio di uguaglianza che integra la domanda dell'efficacia. Ma chi giudica che le disuguaglianze accettabili veramente lo siano ? Solo lo possono i più " sfavoriti ", a patto di aggiungere che i più sfavoriti lo sono per ragioni molteplici, il loro situazione sociale, operai faccia a capitaliste ; il loro genere, ecc.) Questa lettura perfettamente coerente colla TG conduce a porre delle domande che Rawls evita : se le disuguaglianze ingiuste esistono, bisogna agire per eliminarle ? Gli sfavoriti sono fondati a farlo ? Rawls si guarda bene dal rispondere a queste domande.

Non si può fare a meno di una concezione sostanziale del bene

Rawls inciampa continuamente in un problema di cui si tratta ancora in Liberalismo politico : il problema della distinzione fra la TG come teoria politica e le diverse concezioni sostanziali della vita buona. L'idea di una neutralità della TG al riguardo di tutte le concezioni ragionevoli del bene mi sembra pressappoco insostenibile. Ho provato di mostrare tutto ciò nel mio libro Morale et Justice sociale[1]. Un esempio permette di capirlo.
Rawls non può dire chiaramente ciò che chiama concezione ragionevole del bene. Quello da cui la vita è guidata dalla fede ha egli una concezione ragionevole del bene ? Se sembra ragionevole di ammetterlo, si cade su un osso. La TG suppone un Stato laico poiché la libertà di coscienza è il suo valore cardinale e che tutte le coscienze devono essere trattate su un piede d’uguglianza: alcuni credenti posti sotto velo di ignoranza ed applicando il “MAXIMIN” sceglierebbe un Stato laico, perchè lo Stato laico è il migliore Stato per le minoranze religiose; si sa che i cattolici olandesi sono dei difensori della laicità, tutto come i protestanti francesi ! Ma immaginiamo una religione nella quale la separazione del potere temporale e del potere spirituale sarebbe un'idea assurda, addirittura empia. Il semplice fatto che i sostenitori di questa religione accettino di vivere in un regime di laicità può sembrare contraddittorio con le loro credenze più profonde e costituirebbe dunque un inizio di violazione della loro libertà di coscienza. La laicità è in effetti solamente accettabile per quelli che considerano il rapporto a Dio come un affare privato, come un problema di coscienza, dunque quelli che dividono i valori nate in Occidente tra il Rinascimento e l’età classico. Del resto, il stesso Rawls l'ammette.

                   Dopo Rawls

La TG ha aperto una larga discussione filosofica che ha rinnovato profondamente la filosofia politica. Che si trattasse di sviluppi a partire dalle tesi di Rawls o di risposte a Rawls, abbiamo avuto una ricca mietitura di pensieri filosofici. Certi autori come Bernard Williams[2] mostrano che la TG di Rawls presente paradossalmente le stesse attrattive ingannevoli dell'utilitarismo. Amartya Sen e, al suo seguito, Salvatore Veca hanno criticato il carattere troppo radicale dell'anti-utilitarismo della TG.
Veca[3] parte di una constatazione: l'opposizione rawlsiana tra utilitarismo e morale deontologica  e messa seriamente in questione oggi. L'idea rawlsiana di una teoria politica neutralistica, cioè indipendente di ogni ideazione particolare del bene spesso è confutata non solo dai comunautaristici o quelli che si chiamano i neo-aristotelici, come MacIntyre, ma anche dai liberali piuttosto radicali come Ronald Dworkin.
Per Dworkin, c'è un modello sostanziale di vita buona, quello che definisce la qualità principale di una vita degna di essere vissuta e questo modello è implicito in una morale pubblica liberale fondata sui diritti. Si troverà di ciò una spiegazione abbastanza dettagliata nel suo libro, Sovereign Virtue.[4] La linea direttrice di Amartya Sen è anche di tenere insieme vita giusta e vita buona in una prospettiva fondata sui diritti ed il libertà della persona.
Dunque abbiamo teorie che “prendono i diritti sul serio”[5] , per parlare come Dworkin, mentre l'utilitarismo classico, soprattutto quello di Bentham, si burla di diritti dell'uomo che qualifica di “sofismo metafisico”. Ma queste teorie integrano degli obiettivi e dei problemi che erano riservati piuttosto alle morali utilitaristiche.
Veca, in quanto a lui, sottolinea che si dèva considerare l'individuo sotto un doppio aspetto: come paziente morale e come agente morale. Una buona TG deve prendere in conto queste due dimensioni e  solamente sotto queste due dimensioni può essere definita la qualità della vita. Così concernente l'utilitarismo, Veca non si interessa ad una critica dell'utilitarismo ma piuttosto allo stabilimento dei suoi limiti. “L’utilitarismo mette a fuoco la nostra dimensione di pazienti morali ed è rispondente solo a questa dimensione, sulla base dell’idea che questa è la sola dimensione che conta o che deve contare in etica.” (pp. 40/41).
In dispetto di questa limitazione, Veca afferma che non si può sottovalutare la valore dell'utilitarismo:  “basta pensare alla versione dell'utilitarismo negativo in cui l'obiettivo è quello della minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile.” Dunque sono non pertinente, le tesi critiche che consistono a “far evaporare l’importanza della dimensione di paziente morale”. Al contrario : “Una tesi che critica la pretesa di di completezza e il monismo proprio dell’utilitarismo, rende giustizia al nucleo della morale utilitaristica e tuttavia non accetta che la dimensione del nostro essere pazienti morali sia l’unica dimension che conti e cui debbano essere rispondenti i nostri criteri di valutazione etica della politica e delle politiche.” (p.41)
In poche parole, Veca sostiene piuttosto una tesi che cade sull'incompletezza dell'utilitarismo. Le teorie fondate sui diritti fondamentali della persona prendono in conto la dimensione degli individui come agenti morali. Ma delle tali teorie, ci sono due versioni possibile: la versione difesa dai libertaristici, cioè essenzialmente Nozick e la versione difesa dal liberismo politico.
Il prospettivo libertaristico è anche un prospettivo “monisto”, poiché le concezioni del bene non hanno nessuno posto nello spazio politico. I diritti delle persone sono solamente dei diritti negativi ed ogni politica che si occuperebbero di promuovere il benessere collettivo violerebbe immancabilmente i diritti delle persone, perché ridurrebbe necessariamente lo spazio delle scelte individuali. “Nella prospettiva del libertarismo è facile riconoscere le ragioni della disgiunzione radicale fra le questioni di vita giusta e le questioni di vita buona. La disgiunzione non dipende, come alcuni tendono a ritenere, dal’impegno deontologico delle teorie libertarie: essa dipende propriamente dall’impegno anti-consequenzialistico di una prospettiva centrata sulla sole dimensione rilevante del nostro essere agenti morali.” (p. 42)
Per Veca, la TG è al contrario una teoria deontologica che non rinuncia ai criteri di valutazione che rispondono alle conseguenze delle istituzioni e dei politici sui piani di vita completi degli individui. C'è in una tale ideazione della giustizia un spazio per una presa in conto parziale del bene delle persone. Il modo di cui Rawls introduce i beni sociali primari definisce una nozione pubblica, impersonale, della qualità della vita. I beni primi sono dei beni definiti in modo strumentalo difatti poiché sono i mezzi che permettono di realizzare le fini diverse degli individui.
La posizione di Salvatore Veca non è per l'esattezza una sintesi delle concezioni antagoniste in materia di morale pubblica. È piuttosto una posizione pluralistica, cioè una posizione che prende per il fatto che nessuna concezione esistenta presenta i caratteri di completezza sufficienti.  Si potrebbe dire che Veca sostiene concezione debole della TG, una concezione particolarmente sensibile alle critiche comunautarie o utilitariste.
Tutti questi tentativi sono estremamente simpatici. Si indovina bene che Rawls, Sen o Veca siano animati dai migliori sentimenti del mondo e che desiderano ardentemente una società la migliore che quella nella quale viviamo. Per esempio, chiama in causa le disuguaglianze, ma mai il carattere sistemico di queste disuguaglianze non è interrogato. Sono trattate come i fatti naturali. La “globalizzazione” è concipita anche come una realtà naturale o quasi naturale senza sottolineare quanto questa “globalizzazione” ha per condizione lo sviluppo disuguale e combinato delle differenti economie capitaliste. Veca chiede che si riflettesse ad una concezione della giustizia oltre le frontiere nazionali ed ad una “politica interna mondiale.” (p.164) A lui ispirano questa riflessione la reazione della “comunità internationale” dopo il 9/11 e il fatto che les Stati Uniti siano usciti dalla lora “solitudine imperiale”, chiamando in causa l’ONU e l’OTAN, consultando la  Russia e la Cina, e dichiarando che i Palestiniesi hanno diritto a un loro stata, prima di cominciare la guerra contro l’Afganistan, una guerra chiamata dallo stesso Veca guerra per “neutralizzare le centrali del terrore globale” (p. 165). La teoria astratta della giustizia, con tutte le sue finezze, lascia il posto alla pura e semplice propaganda imperiale, prendendo per contante ciò che gli attori del processo storico dicono di loro stessi. Si avrebbe potuto pensare che un conoscitore di l'epistemologia come Veca avrebbe dato prova di una più grande prudenza!
Tutti i filosofi politici contemporanei non si sono messe al rimorchio del “nuovo ordine mondiale.” Dworkin ha preso coraggiosamente posizione contro il “Patriot Act” e le misure di restrizione delle libertà prese dall'amministrazione Bush al nome della guerra contro il terrorismo. Ma, in un modo o nell'altro, la filosofia politica quando si spiega nell'astrazione di ogni conoscenza concreta delle strutture sociali e della storia è ridotta ad enunciare dei voti devoti senza l'inferiore portata, o ancora a dare delle sanzioni trascendentali all'ordine sociale esistante.
Difatti, ammettiamo, come lo dice Veca, che il male c'unisce mentre il bene ci divide, partiamo da ciò che genera il male, cioè l'ingiustizia. Questa non risiede dapprima nella disuguale ripartizione delle ricchezze né nella disuguale capacità dei cittadini ad accedere alle posizioni di potere. Anche dai Nambikwara studiati da Claude Lévi-Strauss[6], un popolo privato di tutto e che vive al limite della sopravvivenza, rimangono delle disuguaglianze sociali e politiche, molto deboli ma reali : il capo ha certi vantaggi, particolarmente quello di avere parecchie donne, in compenso dei suoi doveri propriamente politici. Marx si burlava del “comunismo grossolano” di certi dei suoi contemporanei che riducevano la lotta delle classi alla domanda della grossezza della porta-foglio. Si potrebbe ammettere anche che una parte delle disuguaglianze di reddito e di posizione sociale è praticamente inevitabile, almeno all'orizzonte storico che possiamo tentare di esplorare.
Invece, le disuguaglianze che sono delle vere ingiustizie sono queste che esprimono dei rapporti di dominio. E queste disuguaglianze ingiuste sono di accesso queste che consegue dei rapporti sociali di produzione. Tra il capitalista e gli operai, l'ingiustizia non risiede nel fatto che il primo o ricco ed il secondo povero, ma nel rapporto di dominio che subordina il secondo al primo, rapporto che è molto precisamente ciò che Marx chiama “capitale”. Quando lo stesso Marx studia la trasformazione dello scambio commerciale in circolazione del capitale, cioè quando mostra come il ciclo dello scambio per i bisogni M-A-M cedo il posto al ciclo del capitale A-M-A', Marx mostra la trasformazione che si opera nei rapporti fra gli attori, fra l’uomo che posseda i dennari e l’operaio chi ha solamente la sua pelle a vendere. Il lavoratore “vende la sua pelle”, dice Marx. Ecco esattamente ciò che è l'alienazione e lo sfruttamento, due termini inseparabili. Nel paradiso capitalista, il principio di uguale libertà per tutto è rispettato solamente sotto la forma ironica che gli dava Anatole France: il povero ed il ricco hanno tutti due il diritto di dormire sotto i ponti !
In conclusione, sotto qualche angolo che si prenda il problema, appare chiaramente che la filosofia politica separata di una teoria globale del processi socio-cronostoria è una teoria troncata e destinata a mancare il suo oggetto.

          IV. Alcuni ragioni del crollo del marxismo

Il ritorno di vitalità della filosofia politica è correlato, come l'abbiamo detto più alto, al declino ed al crollo finale del marxismo. Non ho l'intenzione di riprendere qui la spiegazione dell'insieme del bilancio del marxismo storico.[7] mi accontenterò di alcune indicazioni che mirano suggerire che nel marxismo, come nel pensiero di Marx sé il politico costituisce un vero punto cieco

                   Il deperimento dell Stato : il ritorno all'utopia

La prospettiva a lungo termine del pensiero di Marx è tutto salva una prospettiva politica. Se non c'è filosofia politico marxiana o marxista, la ragione ne è semplice : la storia nel fase comunista smetterà di essere politico poiché non sarà strutturata più dal governo degli uomini. Per Marx, la dittatura del proletariato o un governo democratico radicale genere Comune di Parigi, sono solamente delle formazioni transitorie, destini a preparare la loro propria scomparsa. Perché la vera emancipazione dell'individuo non può risiedere in un sistema sociale e politica in che la personalità resta troncata, poiché comparata e valutata secondo un criterio determinato ciò che è ancora nella prima fase del comunismo. Nella Critica del programma di Gotha Marx definisce il comunismo finito nei termini da cui il carattere utopico salta agli occhi, in ogni caso oggi. “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: - Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Note in margine al programma del Partito operaio tedesco)
In L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza (1880), polemizzando tanto contro i partigiani di Lassalle quanto gli anarchi, Engels riassuma la prospettiva nata dalla presa del potere dicendo: “Al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non viene "abolito": esso si estingue.” Su questo punto e a questo momento marx e Engels sono completamente d’accordo. Pero, la loro posizione è aberrante, stricto sensu. È una mescolanza d’utopia e di radicalismo verboso molto strana.
Aberrante anche è la descrizione che fa Marx della fase superiore del comunismo. L'idea che il lavoro diventa il primo dei bisogni nel società comunista raffigura nei Manoscritti del 1844, ma niente in Il Capitale va in questo senso. Al contrario. Nel testo posto in conclusione del libro III, Marx si esprime molto chiaramente contro questa idea. “Alla verità, il regno della libertà comincia solamente a partire dal momento in cui cessa il lavoro dettato dalla necessità e le fini esterne; si trova dunque, per la sua natura stessa al di là della sfera della produzione materiale propriamente detta.” L'uomo non può dunque né liberarsi per il lavoro, né liberarsi dal lavoro. Perché il lavoro appare come una necessità ed una costrizione eterna. “Tutto come l'uomo primitivo, l'uomo civilizzato è costretto di misurarsi con la natura per soddisfare i suoi bisogni, conservare e riprodurre la sua vita,; questa costrizione esiste per l'uomo in tutte le forme di società e sotto tutti i tipi di produzione. Col suo sviluppo, questo impero della necessità naturale si allarga perché i bisogni si moltiplicano; ma si sviluppa il processo produttivo per soddisfarli allo stesso tempo.”
È anche una costrizione che, sotto un certo angolo può andare solamente allargandosi. Tuttavia una certa forma di libertà può esistere nell'inquadro anche del lavoro. Ma è una libertà limitata, e non il libero sviluppo delle potenzialità che sono nell'uomo che può avverarsi solamente al là della sfera della produzione materiale. Presenta due aspetti :
1.       Una comprensione della necessità sufficiente per evitare lo spreco, razionalizzare i rapporti tra l'uomo e la natura, preservare i due fonti della ricchezza sociale, il lavoro e la terra.
2.       Se la necessità del lavoro deve imporsisi eternamente, perché l'uomo resta un essere naturale, resta che può sperare di abolire il dominio che i suoi propri scambi esercitano su lui e dunque agire in quanto uomo socializzato.
L'uomo non può sbarazzarsi della nécessità ; ne può organizzare solamente diversamente le forme, nelle condizioni conformi alla sua natura. Resta che questa libertà, acquistata sul campo della produzione materiale, è solamente una libertà limitata; perché “è al di là che comincio lo sboccio della potere umano che è la sua propria fine, il vero regno della libertà che può infiorare tuttavia basandosi solamente su questo regno della necessità. Il riduzione della giornata di lavoro è la condizione fondamentale di questa liberazione.”
Conclusione prosaica, lontano dall'utopia della Critica del programma di Gotha. Il lavoro non è il primo bisogno, è una realtà contraddittoria: non c'è emancipazione senza lavoro e allo stesso tempo non ci di vera emancipazione che all'infuori del tempo di lavoro. Dunque si può richiedere simultaneamente la diminuzione del tempo di lavoro e richiedere non solo il diritto al lavoro per tutti, ma ancora affermare che, come lo dicono le parole di L'internazionale, " l'ozioso andrà ad ospitare altrove”.
Utopica, la prospettiva tracciata da Marx ed Engels, l'è chiaramente d’un altro modo: riprendono il formulo di Saint-Simon, “passare del governo degli uomini all'amministrazione delle cose”. È tutto tanto sono le prospettive concernente l'organizzazione del lavoro. Che cosa può volere dire l'idea che gli individui non saranno più asserviti alla divisione del lavoro? Marx ha mostrato, in seguito a Smith, che la divisione del lavoro e la cooperazione di cui è l'altra faccia è la principale dei forze produttive. Come può sperare di fare sgorgare l'abbondanza della forma cooperativa rinunciando alla divisione del travail ? Si può, come Marx lo diceva ironicamente in L'ideologia tedesca, essere cacciatore la mattina, pescatore il pomeriggio e “critico critico” la sera! Ma questa debole divisione del lavoro, concepibile in una società di cacciatori-raccoglitori, non è in una società evoluta. Medico essere la mattina, fisico nucleare il pomeriggio ed artista-pittore la sera ?
C'avrebbero anche molte cose da dire sul problema dell'abbondanza delle risorse. Marx pensa con l'ottimismo degli uomini del suo secolo, scienziati ed industriali. Ma da noi abbiamo appreso che vivremo necessariamente in un mondo alle risorse limitate dove i produttori dovranno regolare i loro rapporti colla natura del modo più economico. Ma se le risorse sono limitate, sarà impossibile dare “a ciascuno secondo i suoi bisogno”, salvo a definire in anticipo ciò che sono i bisogni di ciascuno.

                   Il punto cieco

Al totale il pensiero politico di Marx soffre dunque, delle incontestabili debolezze e contraddizioni. Si tratta di un pensiero fondamentalmente anti-politico di cui il legame con Stirner, il vecchio “santo Max”, del 1845 è più forte di quanto si non sia detto.
Sebbene non costituisce principalmente in lei stessa un argomento inconfutabile, l'esperienza storica, quella degli inizi della rivoluzione russa, permette di capire meglio alcune delle conseguenze dei vicoli ciechi del pensiero di Marx sul problema dello stato.
L'esperienza russa poi sovietica è di tanto più interessante che la rivoluzione bolscevica, nello spirito dei suoi principali dirigenti, doveva mettere in pratica i principi teorici che Lenin aveva ricostruito in Lo stato e la rivoluzione. Per Lenin e Trotski, la rivoluzione russa costituisce così un collocamento alla prova delle lezioni che Marx trae dalla Comune da Parigi. Questo collocamento alla prova si rivela catastrofico per questo lembo della pensiero di Marx e per il marxismo rivoluzionario tradizionale. L'anti-parlementarismo di “La guerra civile in Francia” è ricuperata da Lenin che insiste sul necessario “soppressione del parlementarismo.”
Si tratta puramente e semplicemente di sopprimere tutte le forme costituzionali del potere politico, particolarmente ogni forma che riposa sulla separazione dei poteri, e di scioglierli in un'organizzazione ultra-democratica nella quale quelli che decidono eseguono. In realtà, queste assemblee agente, i soviets in Russia, diventano molto rapidamente la coperta degli specialisti dell'azione, cioè delle minoranze le più politizzate, ed il loro carattere ultra-democratico si rovescia nel suo contrario. E, come l'avevano visto bene i pensatori classici, l'assenza di separazione dei poteri trasforma la democrazia in tirannide, ed nemmeno in "tirannide della maggioranza” perché la piramide elettiva dei consigli di base fino al soviet supremo finisce ancora di fatto a sistema più selettivo, meno rappresentativo che i sistemi censitari tradizionali.
L'abolizione della separazione tra lo stato ed i popolo cioè la fine della vecchia distinzione tra Stato e “società civile” costituisci l'ultima grande lezione marxiana della Comune di Parigi. È sviluppata a lungo da Lenin. Si può leggerla in modo ironico, quando Lenin scrive : “Del momento che è la maggioranza del popolo che domi lei stessa i suoi oppressori, non è più bisogno di un “potere speciale” di repressione!”
Come spiegare che gli stessi uomini che sostenevano questo tesi “democratica” hanno costruito un apparecchio di stato in che il "potere speciale di repressione” ha raggiunto un sviluppo illimitato ? Una risposta risiede probabilmente nella volontà di non più considerare lo stato e la società civile come due sfere separate. Lenin diceva che il governo operaio sia la cuoca al governo, ma si realizzerà mettendo la polizia politica nella cucina degli appartamenti comunitari. Sotto coperto di deperimento dello stato, del suo “estinsione” si produce in realtà l'invasione dallo stato di tutte le sfere della vita, sociali come private, ciò che è reso possibile, con una legittimazione ideologico classica : lo stato che diventa lo stato del popolo tutto intero, non è più a temere, quello che lo teme può non dunque che essere un nemico del popolo!
La questione dello stato è il vero punto cieco del pensiero marxiano. Gli interventi congiunturali di Marx su questa questione smarriscono più di quanto non aprano la strada, come la regressione nell'utopia dell'estinzione dello stato e di uno “al di là” del diritto ha giocato finalmente il ruolo di ideologia della salita di una nuova classe o casta dominante nei paesi detti socialisti. Più precisamente, è dapprima di avere voluto trasformare questi interventi congiunturali e spesso molto polemici in una “teoria scientifica” chi costituisce l'errore maggiore dei marxisti. In realtà, non c'è nessuno legame logico tra le analisi strette del modo di produzione del Capitale e le prospettive utopiche, tante quelli dei Manoscritti che della Critica del programma di Gotha.
 Certo, ci sono delle indicazioni interessanti negli scritti di Marx ed Engels particolarmente sul ruolo della democrazia parlamentare come forma di scioglimento del regno della borghesia. Ma rimane la necessità di pensare una filosofia politica coerente a partire dall'analisi critico della società capitalista come si può trovarla in Il Capitale. Se lo stato è una realtà duratura e non un fantasma destinato a sparire a breve scadenza, occorre bene un pensiero dello stato. E se si vuole guardarsi l'orizzonte marxiano del comunismo, bisogna provare a pensare ciò che potrebbe essere un Stato comunista, strano tanto quanto questa espressione possa sembrare ai comunisti marxisti ortodossi (se ci sono ancora!)

          V. Un comunismo non utopico

Al di là di una filosofia politica spesso impotente e di una teoria critica della sociatà senza mezzi di pensare proprio il politico, s’impone la necessità d’una sintesi. Se si prende sul serio le rivendicazioni egualitarie ed il senso della giustizia che sono inclusi nella tradizione della filosofia politica di Rousseau a Rawls o Dworkin, si comprende facilmente che nessuna di queste rivendicazioni non possono essere soddisfatte in una società che riposa sullo sfruttamento dell'uomo per l'uomo. Se si pensa con Marx che non solo il modo di produzione capitalista sia la causa di un'insopportabile alienazione della essenza umana e che abbia suonato l'ora dell'emancipazione umana, si deve riflettere seriamente al modo di cui quelle cose possono farsi politicamente ed uscire una volta per tutte dalle utopie che hanno condotto il marxismo alla catastrofe.
Avendo rinunciato all'utopia, si dovrebbe lavorare a pensare un comunismo non utopico. Restando fedele a ciò che è al fondo del pensiero di Marx, dobbiamo partire dall'inspirazione alla libertà che è stata il motore dello sviluppo rivoluzionario, in Europa dapprima ed altrove poi da forse mille anni, dal momento dove nei comuni i commercianti e gli artigiani hanno scosso le catene del feudalismo e della dominio clericale. Ora questo vasto movimento emancipatore ha aperto la via allo sviluppo del capitalismo che ricostruisce un nuovo assoggettamento, quello dei lavoratori salariati. Nelle condizioni normali, passiamo in grosso il terzo della nostra vita a lavorare ed un altro terzo a rimetterci per riprendere il lavoro l'indomani. Per l'essenziale dunque l'uomo attivo, l'uomo quando manifesta la sua essenza umana lo fa nella condizione di lavoratore salariato, cioè che il lavoro sia per lui alienazione.
Essere sotto la padronanza di un altro uomo nel lavoro è una situazione totalmente contraddittoria con ogni idea della libertà. Come il cane della favola de La Fontaine, ci siamo abituati talmente al collare che finiamo per dimenticarlo poiché questa catena garantisce il nostro pasto e c'accontentiamo spesso di trattare per il meglio la lunghezza della catena e la qualità delle crocchette. Ma può chiamarsi diversamente questa situazione che schiavitù salariata, così come lo diceva Marx? Se la più granda parte della vita sociale dell'immensa maggioranza degli uomini è la vita al lavoro, in tutta questa parte della loro vita sono trattati semplicemente come mezzi e mai come fini in sé, per riprendere qui le formule del vecchio Kant. In altre parole, sono privati della loro dignità, per impiegare ancora il vocabolario kantien. I capitalisti nascondono del resto anche più questa “reificazione”, ossia trasformazione degli uomini in cose che implica il lavoro salariato. Un tempo avevano dei responsabile del personale, un termine che include ancora l'argomento di diritto che è la persona, ma li hanno sostituiti per i direttori dei “risorse umane”, un'espressione da cui l'oscenità sfugge solamente a quelli che hanno perso ogni senso morale.
Questa reificazione non riguarda solamente le ore lavorate, il lavoratore potendo sfuggire al dominio nel “tempo libere”. Difatti, è la vita stessa del lavoratore che dipende dal capitalista : quando la crisi getta dei milioni di salariati alla via, quando i pensionati vedono la loro pensione sciogliere e devono rimettersi a cercare del lavoro, quando i giovani devono lavorare gratuitamente nelle pseudo-stagi di qualifica nella speranza di essere un giorno impiegati altrove, dove è la famosa libertà di cui i liberali ci ribattono gli orecchi  ?
In una parola come in mille, l'unica prospettiva degna dell'uomo civilizzato, di quello che sa camminare sulla Luna ed addomesticare, pressappoco, l'energia atomica, di questo uomo che può comunicare istantaneamente con ogni altro uomo sul pianeta tutta intero, è “l'abolizione del lavoro salariato e del patronato”, formula degli anarcho-sindacalisti francese della CGT (in1905). O con Marx : “L'appropriation capitalista, conforma al modo di produzione capitalista, costituisci la prima negazione di questa proprietà privata che è solamente il corollario del lavoro indipendente ed individuale. Ma la produzione capitalista genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi della al naturale. È la negazione della negazione. Ristabilisce non la proprietà privata del lavoratore, ma la sua proprietà individuale, fondata sugli acquisiti dell'era capitalista, sulla cooperazione e la possessione comuna di tutti i mezzi di produzione, inclusa la terra. (Capitale, I, s. VIII cap.  XXXII)
Si tratta bene di ristabilire la proprietà individuale del lavoratore, ma non la proprietà privata, ciò che supporrebbe che siano distrutti tutte le acquisiti dell'era capitalista. La proprietà individuale sulla base della cooperazione non può significare altro che la proprietà associativa dei lavoratori, questo di cui abbiamo l'abbozzo nelle cooperative operaie di produzione. La nazionalizzazione, tipico del socialismo del secolo ultimo, non è il possesso comune dei mezzi di produzione. Nell'impresa nazionalizzata, il lavoratore resta sottomisi, neanche al capitalista individuale ma al direttore chiamato dal governo. Cambiamento di dominio di classe ma per niente abolizione del lavoratoro salariato e del padronato. Inversamente, un'organizzazione fondata sull'associazione dei produttori supporrebbe una partecipazione diretta dei lavoratori alla direzione delle imprese ed alla vita economica, esattamente così quando degli artigiani o di altri lavoratori indipendenti si associano o per totalità sia per parte delle loro attività.
 Non c'è dubbio sulla possibilità di costruire delle imprese proprietà dell'associazione dei produttori. I problemi sono più spinosi quando si passa dello scala della piccola produzione alle grandi unità integrate. Ne abbiamo tuttavia un esempio, quello di Mondragon, una cooperativa nata al paese basco che raggruppa oggi più decine di migliaia di cooperatori in Spagna ed altrove. Questa cooperativa opera nel campo industriale (attrezzatura, materiale di sport, ecc.), la finanza, la grande distribuzione alimentare, eccetera.. Mondragon ha un mezzo-secolo di esistenza adesso e rimane un'impresa capitalista nella misura in cui è sottomessa alla concorrenza e deve ubbidire alle regole di gestione delle imprese capitaliste, sotto pena di sparire. Del resto solamente la metà dei salariati del gruppo è cooperatrice, poiché Mondragon ha acquistato delle società non cooperative che restano delle società capitaliste normali sebbene il capitalista sia questa volta un'associazione di produttori. Ma l'esistenza di una molto grossa impresa cooperativa basta a mostrare che l'associazione dei produttori non è solamente una chimera o un'organizzazione  valida in alcuni tiri ecologici.
Più complessa è la questione del coordinamento di insieme, alla scala di una nazione o di un gruppo di nazioni. Si conosce due modi di affettare le risorse disponibili tra i diversi settori della produzione  : il mercato ed il piano. Il piano centrale non si è mostrato molto brillante nelle sperimentazioni conosciute e, la causa dell'insuccesso non tiene solamente al carattere particolare della casta burocratica sovietica ma ai problemi più generali e più fondamentali. Tuttavia un puro “socialismo di mercato”, ossia un'organizzazione economica concorrenziale nella quale le imprese capitaliste sarebbero sostituite semplicemente dalle cooperative operaie, è un tipo di società lontano da essere soddisfacente, perché riproduce su un'altra scala il principio capitalista secondo che gli uomini sono naturalmente dei concorrenti o dei rivali. Esiste tutta una letteratura che, sotto l'intitolato generale di “modelli di socialismo”, discutono i diversi modi di articolare l'appropriazione sociale dei mezzi di produzione ed il mercato.
Si arguirà che questa organizzazione comune della produzione è solamente quella di una libertà collettiva e non per l'esattezza della libertà individuale. Non facciamo tuttavia che riprendere il passo già schizzato da Rousseau nel Contratto Sociale. Ad un'impossibile e povera libertà naturale dell'individuo diviso dagli altri uomini, a questa libertà di alcuni che si paga della schiavitù della grande maggioranza che si chiama liberismo, sostituiamo una libertà civile infinitamente più ricca poiché fondata sull'impegno di tutti nell'organizzazione e la definizione dei finalità della produzione della vita materiale e spirituale di tutti.
È possibile concepire un'organizzazione sociale chi sia in ogni punto la manifestazione della libertà individuale? O ancora, è possibile sormontare la contraddizione tra individuo e società ? Ecco la domanda sulla quale inciampa finalmente ogni pensiero rivoluzionario. L'anarchismo dà un soluzione impossibile : l'affermazione assoluta dell'individuo che vivrebbe con gli altri senza imporre e senza imporsisi nessuna costrizione. Il collettivismo denominato anche " comunismo " proponi una soluzione inaccettabile ed insopportabile a lungo termine. Dunque bisogna ammettere una contraddizione senza sorpasso tra individuo e società. E lo sviluppo di istituzioni comunitarie, di una vita comunitaria liberamente scelta è possibile solamente se allo stesso tempo l'individuo può proteggersi della tirannide collettiva, se dispone di una sfera di intimità che sia proprio a lui e che sia legalmente inviolabile. Questa sfera include le libertà individuali tradizionali (libertà di coscienza, libertà di espressione, libertà di andare e di venire, ecc.) così come la riconoscenza della proprietà privata. Si deve distinguere, difatti, la proprietà privata della sua abitazione e dei suoi beni e la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia proprio la proprietà capitalistica. La seconda non è una proprietà sulle cose ma un rapporto sociale che suppone il dominio mentre la prima è semplicemente l'affermazione del diritto dell'individuo ad abitare il mondo comune.
Più generalmente, in una società dove dominerebbero i principi comunisti, si dovrebbe evitare che i poteri non siano concentrati, anche se questi stanno tra le mani di un Stato repubblicano e sociale, e si dovrebbe permettere tanto lontano quanto ciò è possibile di permettere a ciascuno di vivere la vita che sceglie. Ad un'organizzazione sociale dominata per la costrizione, si deve potere sostituire per quanto possibile delle appartenenze comunitarie liberamente scelte. Per questa ragione, un società comunista potrebbe accettare anche perfettamente una sfera di piccola produzione indipendente nel campo artistico, quello dell'artigianato o delle libere professioni. Quello che vuole produrre solo ed accettare la disciplina della cooperativo di produzione non deve potere farlo senza danno. Alle cooperative di mostrare che sono realmente superiori a l’iniziativa individuelle !
Nello stesso ordine d’idea, un comunismo non utopico sarebbe internazionalista ma riconoscerebbe l'esistenza imprescindibile delle nazioni. L'internazionalismo significa la solidarietà dei popoli e la loro unione in un trattato di pace continua, un poco come Kant o di Rawls, ma non implica l'idea di una repubblica universale, di un Stato mondiale, una delle prospettive più terribili che si possa immaginare. Anche qui, la dispersione del potere permette di considerare la salvaguardia della libertà mentre “il  comitato centrale mondiale dei consigli operai" non farebbe che ricostituire il “soviet supremo”.
Tutto cio che abbiamo appena abbozzato non ha più niente da vedere col “comunismo integrale” e “l’uomo nuovo”, non più niente da vedere colla defonta utopia del comunismo storico del Novecento. Si tratta solamente delle grandi linee di una possibile transformazione sociale, che si può  mettere in opera adesso, sebbene parzialmente e progressivamente.
Fermiamo qui. C’è necessità di costruire una filosofia politica articolata alla teoria sociale, una filosofia politica dell’emancipazione effettiva dei dominati.
Denis COLLIN. 18 Gennaio 2009

                    



[1]    D. Collin, Morale et justice sociale, Le Seuil, Paris, 2001
[2]    B. Williams, La sorte morale, (Moral Luck, 1981), trad. R. Rini, il Saggiatore, 1987
[3]    S. Veca, La bellezza e gli oppressi : dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, 2002
[4]    R.Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza (Sovereign Virtue, 2000).Feltrinelli, 2002
[5]    R. Dworkin, I diritti presi sul serio, 1982, Il Mulino
[6]    Voir C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, Tristi tropici, Il Saggiatore, 2008
[7]    Si mi permettera di rinviare a D. Collin, Comprendre Marx, Armand Colin, 2006.

Notes sur les « Prolégomènes à toute métaphysique future qui voudra se présenter comme science »



(Édition de référence : Œuvres II dans La Pléiade)

Préface

Le but du livre : exposé de la science à destination des maîtres. Ce n’est pas un livre pour les élèves.  La question première : se demander si « quelque chose comme la métaphysique est possible » (IV, 256).
La métaphysique est qualifiée de « prétendue science ». Elle ne progresse pas alors que toutes les sciences progressent. Le but de Kant n’est pas de ruiner définitivement la métaphysique mais de définir les conditions qui la rendent possible comme science. Car la raison humaine ne peut vouloir renoncer à construire une telle science. il s’agit de préparer une « renaissance » de la métaphysique.

Fiche de lecture: Alcibiade de Platon

Ce dialogue (dont l’authenticité a été parfois contestée) passe pour être une véritable introduction à la philosophie de Platon. Il est sous-titré « Sur la nature de l’homme, genre maïeutique ». Les sous-titres ne sont pas de Platon mais d’une époque bien ultérieure.

Il s’agit – et c’est le thème central – de « prendre soin de soi-même », de « prendre soin de son âme » en choisissant la philosophie ou la « vie philosophique ». Je reprends ici le plan proposé par les éditeurs GF (p.14).

I.                   Entrée en matière : la rencontre de Socrate et Alcibiade (103a-106c)

Socrate est un amoureux d’Alcibiade. Il ne l’a jamais abordé. Mais lui est resté fidèle alors que tous les autres amoureux l’ont abandonné à cause de son arrogance. Pourquoi Socrate n’a pas fait comme les autres ?  À cause de son démon ! L’apologie de Socrate, Platon lui fait dire :
Le démon, c’est-à-dire ce qui en l’âme est proprement divin. Socrate en parle à de nombreuses reprises. Dans
[…] comme vous me l'avez maintes fois et en maints endroits entendu dire, se manifeste à moi quelque chose de divin, de démonique […]. Les débuts en remontent à mon enfance. C'est une voix qui, lorsqu'elle se fait entendre, me détourne toujours de ce que je vais faire, mais qui jamais ne me pousse à l'action. Voilà ce qui s'oppose à ce que je me mêle des affaires de la cité […] [31c-d].
Ce démon, il en parle encore abondamment dans d’autres dialogues, notamment Le banquet. Ici Socrate promet pour plus tard un développement sur ce démon.
Ce qui les rapproche, c’est d’abord qu’Alcibiade veut savoir ce que Socrate a en tête : « tu me troubles à être toujours là où je suis » (104d). Et Socrate lui répond (105e) : « je vais de révéler à toi-même tes pensées. » Alcibiade veut être puissant mais personne ne peut lui donner ce que Socrate se prépare à lui donner. On remarque que le problème du souci de soi va se poser à partir du moment où Alcibiade veut exercer le pouvoir politique. Chez Platon, tout finit par converger vers la politique, c’est-à-dire l’ordonnancement juste de la cité. Alcibiade a été mal éduqué et il doit maintenant surmonter les conséquences de cette mauvaise éducation au moment où il veut diriger les Athéniens.

II.                Examen des compétences d’Alcibiade (106-109b)

Pour prétendre diriger les Athéniens, il faut en posséder la compétence. Socrate commence par là. La politique est le fait de ceux qui en possèdent le savoir. Quand on confie la cité à ceux qui ne savent rien ou qui font semblant de s’y connaître, la cité est condamnée à la guerre civile, à l’anarchie ou à la tyrannie, bref au règne de la violence. La République, le Politique et Les Lois, les trois grandes œuvres directement politiques de Platon développeront ce point.
Socrate développe ici un de ses raisonnements favoris par dichotomie qui prend en quelque sorte en tenaille son interlocuteur si bien qu’à la fin celui-ci ne sait plus que penser. Voyons comment il procède.
·         Ce qu’on sait vient des autres ou de soi-même.
·         Or Alcibiade ne peut pas conseiller les Athéniens sur ce qu’il a appris des autres (l’alphabet, la flûte …)
·         Pour les autres sujets (architecture, etc.), les Athéniens s’adresseront à un spécialiste – ce que n’est pas Alcibiade. Il en va de même pour le combat …
·         Conclusion : Alcibiade ne possède aucune tékhnê !
On retrouvera toute cette discussion sur les tékhnê dans le Gorgias. Gorgias, le rhéteur, prétend être capable de tenir des discours sur tous les sujets, même s’il n’a aucune compétence pourvu qu’il maîtrise l’art de faire des beaux discours. Alcibiade procède différemment : le rhéteur reconnaît que la rhétorique peut servir la justice autant que l’injustice. Alcibiade reconnaît qu’il ignore toutes ces téckhnê au sujet desquelles Socrate l’a questionné mais affirme posséder la compétence de savoir quand il est juste d’employer celle-ci ou celle-là. Mais c’est précisément cette compétence en matière de justice qui est maintenant interrogée.

III.              Qu’est-ce que le juste ?  (109b-116e)

A.               Ignorance d’Alcibiade en la matière (109b-113c)

Socrate reprend le fil de son raisonnement. Soit Alcibiade a appris la justice de quelqu’un d’autre soit il l’a découverte par lui-même.
·         Or Alcibiade n’a pas fréquenté de maître en matière de justice.
·         Il affirme avoir appris la justice du grand nombre, mais ce n’est pas un bon maître !
Si le grand nombre n’est pas compétent en matière de justice, il n’est donc pas compétent en matière de politique. Bien que non développée, on retrouve ici la position classique de Platon qui tient la démocratie pour un mauvais régime, pas tout à fait le pire – le pire étant la tyrannie – mais celui qui conduit directement au pire des régimes.
Conclusion : Alcibiade est ignorant en matière de justice. Il s’engage dans une « entreprise déraisonnable » : « enseigner ce que tu ne connais pas, ayant négligé de l’apprendre »

B.                Le juste est l’avantageux (113c-116e)

Ce passage tente de construire un concept du juste. En effet Alcibiade essaie de se tirer d’affaire en disant
·         Que la distinction du juste et de l’injuste va de soi et que ce n’est pas là-dessus qu’on délibère ;
·         Que le véritable sujet de délibération est l’avantageux ou le nuisible.
Socrate met en cause la distinction entre juste et avantageux. À Alcibiade qui soutient que l’avantageux peut être injuste, Socrate rétorque ceci :
·         Certaines choses justes sont avantageuses
·         Ce qui est juste est beau
·         Ce qui est bon est bon
·         Or ce qui est bon est avantageux
·         Donc ce qui est juste est avantageux.
Conclusion d’Alcibiade désorienté : « je ne sais plus ce que je dis ».

IV.             Les espèces de l’ignorance (116e-119a)

A.               Connaissance et espèces d’ignorance (116e-118b)

L’ignorance d’Alcibiade pose maintenant la question d’une classification des genres d’ignorance.
·         On ne s’égare pas sur ce que l’on sait
·         On ne s’égare pas sur ce que l’on ne sait et dont on sait qu’on ne le sait pas
·         On s’égare sur ce que l’on ne sait pas et que l’on croit savoir.
C’est à la dernière catégorie qu’appartiennent les erreurs propres à l’action.
Alcibiade est dans la pire des ignorances : il se lance dans l’action comme s’il savait alors qu’il ne sait pas (il erre sur les choses les plus importantes, le juste, le bien …)

B.                L’ignorance en politique, de Périclès à Alcibiade (118b-119a)

Suit tout un passage dirigé contre Périclès qui faisait le savant mais ne l’était pas. Savoir quelque chose en effet, c’est être capable de le transmettre. Or Périclès n’a rien transmis à ses fils, donc Périclès entre dans la catégorie de ceux qui croient savoir ce qu’ils ne savent pas… Et Alcibiade se propose de continuer dans cette lignée !

V.               Les véritables rivaux d’Alcibiade (119a-124b)

À partir de là, il y a un changement de méthode dans la discussion. Socrate essaie de définir ce que doit comporter l’éducation de celui veut diriger ses concitoyens. Les Perses et les Lacédémoniens sont les grands rivaux d’Athènes et leur richesse et leur puissance ils les doivent à leur éducation.
Le futur roi des Perses est éduqué par quatre « gardiens royaux », le premier enseigne la religion, le second enseigne l’art de gouverner, le troisième lui apprend à dire la vérité et le dernier est son professeur de tempérance. Rien de tel dans l’éducation d’Alcibiade.
En ce qui concerne les Lacédémoniens, là encore leur éducation fait référence qui enseigne « la tempérance, le sens de l’ordre, l’aménité, l’humeur facile, la fierté, la discipline, le courage, la force d’âme, l’amour du travail, de la victoire et de l’honneur » (122c).
Les vrais rivaux d’Alcibiade ne sont pas les autres Athéniens, mais ces chefs étrangers. Et pour les vaincre, on ne peut l’emporter sur eux que « par le soin et la technique ». Le « connais-toi toi-même » rappelé ici par Socrate doit être pris au sens le plus simple : « regarde-toi, regarde toi comme tu es en comparaison de tes véritables rivaux.

VI.             Comment pouvons-nous devenir meilleurs (124b-127d)

Il faut savoir maintenant à quoi appliquer ce soin. À devenir meilleur, répond Socrate. Mais meilleur en quoi ? Suit un dialogue socratique classique qui vise à déterminer quel est l’objet de la compétence qu’il faut acquérir. Une longue suite d’interrogations aboutit à définir la cité bien gouvernée comme celle où règne la concorde et où chacun occupe la place qui est la sienne. Or Alcibiade qui convient de cela ne peut même pas le définir et doit constater à nouveau : « je ne sais même pas ce que je dis ». (127d)

VII.          Qu’est-ce que prendre soin de soi-même ? (127e-135e)

A.               Soi-même et ce qui nous est propre (127e-128d)

Si dans une cité juste, chacun s’occupe des choses qui lui sont propres, il faut définir ce que c’est.
·         Il y a les choses qui se rapportent à nous (les membres, etc.)
·         À chacune de ces choses correspond une tekhnê pour en prendre soin.
·         Mais le soi-même est autre chose que l’ensemble des choses qui se rapportent à soi.
·         La technique qui permet de prendre soin de soi repose sur la connaissance de soi

B.                Qu’est-ce que soi-même ? (128d-132b)

Reste à déterminer le soi. Nouvelle suite de questions qui aboutit à la conclusion que le soi-même est différent du corps. On est arrivé alors au nœud qui donne son sous-titre au dialogue : « de la nature de l’homme » (129c : « qu’est-ce donc que l’homme ?).
Conclusion : ce qu’est l’homme, c’est son âme.
Mais ici on n’a encore défini que les « soi » particuliers.  L’homme, c’est son âme. Mais le « soi-même lui-même », c’est encore autre chose. Il y a là une question classique qui est celle de la réflexivité propre à la pensée humaine et qui sera au cœur de la « philosophie du sujet » qu’on peut faire naître avec Descartes et qui conduit à la phénoménologie. Mais Platon n’emprunte pas cette voie.
·          Les diverses occupations de chacun, les métiers, ce n’est pas s’occuper de soi (et donc les choses qui nous sont propres, ce n’est pas cela !).
·         Dans le dialogue, c’est une âme qui parle à une âme.
·         Dans l’amour véritable, l’amant aime l’âme de l’aimé et donc est indifférent aux ravages du temps sur le corps (c’est pourquoi Socrate aime encore Alcibiade alors qu’il a passé l’âme d’être aimé pour son corps). C’est la définition de ce qu’on appelle « amour platonique ».

C.                Comment prendre soin de soi-même ? (132b-135e)

Il faut donc prendre soin de l’âme et diriger sur elle ses regards. Suit une comparaison entre le « connais-toi toi-même » et « regarde-toi toi-même ». On peut se voir dans un miroir ou dans le regard d’un autre, à condition de fixer la pupille. De la même façon, il faut fixer la « pupille de l’âme »,  la pensée réflexive.
La connaissance de soi est au fond de fixer le divin et par là la connaissance de soi a une valeur éthique – se connaître, c’est être tempérant et juste : se connaître soi, c’est connaître ce qui est propre à soi et par conséquent aussi ce qui est propre aux autres et donc c’est être juste. Conséquence : celui qui ne se connaît pas lui-même ne peut pas être politique – ou alors il sera un mauvais politique qui prendra de mauvaises décisions.
Conclusion générale : il ne reste plus à Alcibiade qu’à suivre l’enseignement socratique, c’est-à-dire à prendre soin de soi, c’est-à-dire à devenir juste et tempérant, c’est à cette condition seulement qu’il pourra prétendre diriger les Athéniens.

vendredi 15 septembre 2017

A nouveau sur la morale laïque



Est-il vraiment nécessaire d’enseigner la morale laïque ?

On nous dit que l’école devrait enseigner la morale laïque. Une loi a même été votée à ce sujet. Mais avant de se demander si c’est bien là la tâche de l’école, il convient de se demander si la « morale laïque » existe vraiment, ou encore s’il est possible de penser une morale laïque qui prendrait place à côté des morales non-laïques, c’est-à-dire religieuses ou encore qui les engloberait toutes dans un vaste projet syncrétique. Cette présentation des choses me semble erronée pour plusieurs raisons :
1)       Il n’y a pas à proprement parler de morale religieuse mais seulement des préceptes moraux inclus dans des corpus dogmatiques ;
2)       Il n’y a pas à proprement parler de morale spécifiquement laïque mais tout simplement une morale humaine qui peut légitimement prétendre à l’objectivité et à l’universalité.
3)       La laïcité ne peut être réduite à un principe de tolérance ; elle s’inscrit au contraire dans la visée républicaine de l’émancipation.

On peut et on doit se passer des morales religieuses

La loi morale semble, au moins dans la tradition judéo-chrétienne, s’annoncer d’abord sous la forme de la loi religieuse. Le Décalogue est le modèle de cette conception : la loi s’impose à tous parce qu’elle n’a pas une origine humaine. Et cette transcendance est nécessaire pour que la loi puisse s’imposer car, sans cela, les hommes n’auraient aucune raison de l’adopter. Bien au contraire, sans l’autorité de la loi, ils ne peuvent que se jeter dans la débauche et dans l’idolâtrie, ainsi que le constate Moïse, de retour du Sinaï. Le corollaire de cette conception, c’est la puissance de châtier dont dispose Dieu. Il peut châtier les hommes de leur vivant, comme il le fait à Sodome et Gomorrhe. Mais le châtiment, dans la conception chrétienne, vient plutôt après la mort où les âmes des pécheurs sont livrées aux tourments éternels de l’enfer. Même si la théologie fait de l’amour de Dieu le mobile de l’obéissance à la loi, c’est essentiellement dans la crainte de Dieu que s’enracine la moralité. Cette question hante Les frères Karamazov de Dostoïevski : « si Dieu n’existe pas, tout est permis. »
L’idée d’un fondement de la morale dans l’autorité transcendante d’une intelligence ordonnatrice du monde se retrouve dans les doctrines providentialistes du xviie siècle et dans la théologie naturelle. Chez Locke, par exemple, la loi morale est une loi naturelle, et c’est pourquoi il refuse la vision hobbesienne de l’homme à l’état de nature comme un être qui ne connaît que son « droit de nature » sur tous et sur toutes choses. Mais cette loi naturelle qui interdit à l’homme de disposer de sa propre vie et de celle des autres ou encore qui fonde la séparation du tien et du mien, c’est-à-dire de la propriété, selon Locke, c’est dans le Nouveau Testament qu’on en trouve l’expression la plus achevée.
On pourrait critiquer ce besoin de fondement théologique de la morale par l’examen de ses conséquences. Nos sociétés sont pluralistes et admettent la liberté de conscience, par conséquent la liberté de ne pas croire en Dieu. Ainsi, nous aurions un fondement de la morale qui ne vaudrait que pour les croyants. Une telle morale suspendue à la foi perdrait toute autorité. Dans les critiques modernes de la morale en général, on retrouve d’ailleurs cette même problématique mais inversée : puisque la morale découle de la religion et que la religion n’est que superstition, destinée à intoxiquer les hommes au profit des tyrans et des parasites, la morale elle-même n’est qu’une superstition dont on devrait se débarrasser au plus vite. L’argument du nécessaire fondement théologique de la morale se retourne contre lui-même.
Il y a également un argument de fait : si la foi pouvait fonder la morale, cela se saurait ! Les sociétés où la foi garde une très grande importance ne sont ni plus ni moins immorales que les sociétés où le scepticisme à l’égard de la religion est très ancien. Les citoyens des États-Unis sont généralement très religieux – c’est peut-être même le plus religieux des pays développés – et pourtant ils ne semblent pas très bien placés pour donner l’exemple de la régénération morale aux libres penseurs goguenards de l’autre côté de l’océan. Une question soulevée depuis fort longtemps : déjà Pierre Bayle montrait que l’athée vertueux était de loin préférable au bigot superstitieux[1].
En troisième lieu, les défenseurs du fondement théologique de la morale font comme si la révélation religieuse était unique et comme si ses leçons étaient univoques. Mais quelle foi peut donc servir de fondement à la morale ? Celle de l’Ancien Testament, celle du Nouveau Testament, celle du Coran ? Faut-il plutôt suivre les leçons de Bouddha ? Les esprits syncrétistes affirment que toutes ces religions partagent un fond moral commun. Admettons cela – qui est tout sauf évident. Alors il s’ensuit que l’aspect moral de ces religions n’a aucun rapport avec les croyances proprement religieuses qu’elles imposent. Ce qu’elles ont de commun, ce sont quelques préceptes raisonnables que tous les hommes peuvent partager indépendamment de la question de savoir si Marie a été conçue sans pêché originel ou si c’est bien Gabriel qui a révélé à Muhammad les vérités du Coran. L’argument syncrétiste loin de revaloriser le rôle de la foi montre finalement qu’on peut fort bien s’en passer.
En quatrième lieu, les morales religieuses si elles existent sont en fait des prescriptions de vie qui débordent de très loin le champ de la morale. Peut-on trouver un quelconque sens moral aux interdits alimentaires ? Manger de la viande le vendredi saint ou manger du porc, sont-ce là des pêchés au même titre que le vol ou le parjure ? Peut-on mettre le meurtre et la fornication sur le même plan ? Il suffit de poser ces questions pour avoir la réponse. Le mélange de la diététique et de la moralité a quelque chose d’inconvenant.
Est-il vrai que si Dieu n’existe pas, tout est permis ? Norberto Bobbio analyse la signification de la parole des chevaliers de l’ordre teutonique, « Dieu le veut ». « C’est le revers du nihilisme : si Dieu existe et que je combats à ses côtés, alors toute atrocité est possible ».[2] Il n’y a pas si longtemps, les chrétiens pensaient que tuer et mourir pour sa foi étaient des manifestations d’un comportement éthique exceptionnel. Et les ordres mendiants fournissaient de redoutables et cruels inquisiteurs. Ainsi, les fanatiques de confession islamique ne nous sont point étrangers. S’ensuit-il que nous devions considérer notre conception des hommes comme individus libres et égaux seulement comme une conception éthique parmi d’autres, une conception définitivement ancrée dans la subjectivité de « l’homme occidental », sans valeur en dehors de cet horizon ?
Le développement, à nouveau, des diverses formes de fanatisme religieux, jusque sous ses manifestations les plus monstrueuses, nous oblige à poser cette question. Si Dieu existe, d’une part le croyant est justifié dans sa croyance et l’autre est dans l’erreur absolue qu’il faut extirper pour la plus grande gloire de Dieu. Si Dieu existe, la vie terrestre n’est qu’une vie misérable qui ne saurait en rien être comparée avec la vie dans l’au-delà et, par conséquent, la mort n’est pas à craindre, ni pour soi, ni pour les autres, puisque de toutes façons, c’est Dieu qui décide de rappeler à lui les mortels. C’est pourquoi dans les religions cohabitent si facilement les préceptes moraux les plus incontestables et l’utilitarisme le plus prosaïque et le goût du sacrifice le plus terrifiant. Credo quia absurdum ! En effet, il faut croire parce c’est absurde, car sinon comment croire pour des raisons morales à des dogmes qui enseignent que les bébés non baptisés erreront éternellement dans les limbes ? Comment admettre une justice divine qui condamne les enfants pour les fautes des parents ? Comment l’amour pourrait-il ordonner l’extermination des infidèles ?

Il y a une morale humaine universelle que l’on peut fonder sur la raison

Inversement, si Dieu n’existe pas, la responsabilité morale nous incombe intégralement. Pas de justice ni de miséricorde divine dans l’au-delà. Trouver nos propres limites, c’est notre affaire. Déterminer ce que nous devons nous interdire, cela nous concerne et la réponse est dans l’usage de notre jugement et nulle part ailleurs. Autrement dit, on pourrait renverser la proposition commune sur l’amoralisme de notre époque désenchantée. C’est parce que la religion a déserté les esprits et les pratiques sociales que nous avons besoin de morale et c’est parce que nous pouvons entrer dans l’âge de la majorité – pour parler comme Kant dans Qu’est-ce que les Lumières ? – que la morale, une morale autonome, humaine, rien qu’humaine, est véritablement possible.
Cette possibilité postulée semble se heurter aux impératifs d’une « laïcité ouverte » qui laisserait leur place aux « morales religieuses » dans un grand projet syncrétique. L’exaltation de la subjectivité, de l’individu-roi, pour reprendre une des expressions favorites de Pierre Legendre[3], semble conduire directement à ces conclusions relativistes lesquelles conduisent, de fait, à une sorte de nihilisme moral. Inversement, penser qu’il y a une objectivité des valeurs éthiques – ou du moins de certaines d’entre elles – conduit à admettre que certains principes de vie s’imposent à tous, de manière universelle, y compris contre les formes particulières de la vie éthique de telle ou telle communauté. Nous pensons que le respect de l’intégrité physique des personnes fait partie des principes les plus fondamentaux inclus dans « les droits universels de l’homme » et c’est pourquoi, en dépit de quelques formidables régressions au XXe siècle, la torture est condamnée comme moyen légitime d’investigation judiciaire. Pourtant, certains groupes considèrent l’excision comme une pratique normale permettant à la jeune fille d’entrer dans la vie adulte comme femme. Dans cette pratique, le psychanalyste reconnaîtra sans peine la terreur masculine exacerbée devant la sexualité féminine. Mais la psychanalyse n’a pas vocation normative. Devons-nous alors admettre que les valeurs éthiques qui posent que les femmes ne peuvent devenir femmes qu’en étant privées de la possibilité de jouir ont les mêmes droits à faire valoir que les valeurs d’égalité et de droit au bonheur, proclamées par les déclarations américaine et française dès la fin du XVIIIe siècle ? C’est ce qu’ont soutenu les courants se réclamant de l’ethnopsychiatrie à la Tobie Nathan. Il est curieux de constater que le relativisme, affirmant la primauté de la subjectivité et l’équivalence de toutes les valeurs, conduit ainsi à la soumission à la tradition, même la plus cruelle et la plus obscurantiste.
On pourrait sortir de cette contradiction en trouvant un moyen de démontrer qu’il existe des valeurs éthiques objectives. Comme on ne peut plus guère s’en référer à l’autorité religieuse, celle de la raison devrait nous offrir une bonne solution, s’il y en a une. Il suffirait alors de mettre ses pas dans ceux de Kant. Les Fondements de la métaphysique des mœurs montrent justement que ni la tradition, ni l’autorité religieuse, ni les motivations utilitaires ne peuvent assurer un fondement à la moralité. Cela est évident pour la tradition et l’autorité religieuse, mais, pour Kant, il en va de même des principes utilitaristes. Si l’utilitarisme est une morale guidée par la recherche du bonheur, alors, comme « chacun voit midi à sa porte », chacun a sa propre conception du bonheur et donc une morale fondée sur le principe du bonheur ne serait qu’un empilage de préceptes contradictoires. L’un affirmera que l’ascétisme est la condition d’un bonheur durable alors que l’autre démontrera qu’il suppose un minimum de confort matériel ; l’un verra dans le loisir le vrai bonheur alors que l’autre posera que c’est seulement dans le travail que l’homme se réalise et trouve son bien propre. Si l’utilitarisme rencontre encore de nos jours un succès tel qu’il est, de fait, la morale dominante des sociétés démocratiques, c’est qu’il s’accorde parfaitement avec le relativisme moral et le subjectivisme. Au contraire, la morale kantienne, en construisant ses principes a priori peut prétendre à définir des valeurs éthiques objectives, car valant universellement. On peut d’ailleurs remarquer que certaines des règles morales communes à toutes les sociétés se peuvent déduire assez aisément de l’impératif catégorique kantien, ainsi de l’interdit du meurtre, de la condamnation du mensonge, de la nécessité de respecter la parole donnée, etc. Pour être pleinement convaincu, il faudrait encore montrer que l’impératif catégorique peut être pensé indépendamment de l’édifice d’ensemble de la philosophie de Kant. En effet, s’il découlait seulement de la philosophie transcendantale, on pourrait n’y voir que le résultat d’une conception métaphysique particulière et non un principe valant objectivement et, par conséquent, on serait ramené à notre problème de départ. Dans des directions différentes, Apel[4], Habermas[5] ou Tugendhat[6] nous donnent de bonnes raisons de penser qu’on peut séparer la raison pratique de son fondement transcendantal. Mon Morale et justice sociale[7] s’aventure sur cette même voie.
Mais il est une deuxième difficulté, déjà soulevée par Hegel. Les valeurs éthiques ne sont pas seulement des principes abstraits mais doivent être effectives. Ce qui suppose qu’elles ne sont pas seulement des interdits mais aussi des moyens, pour l’individu, de réaliser ses fins propres. Rousseau qui, à bien des égards, est le précurseur le plus direct de Kant, croyait qu’on pouvait aimer la vertu et que cette passion serait suffisamment forte pour contrebalancer nos autres passions. Posons encore le problème autrement. En suivant Rawls, on affirme la priorité du juste sur le bien, mais comment cette priorité pourra-t-elle s’imposer si les individus – sous le voile d’ignorance ou non – n’y voient pas aussi la réalisation de leur bien le plus précieux. Autrement dit, pour être assuré qu’il existe des valeurs éthiques objectives, il ne suffit pas de s’en remettre aux raisons procédurales du disciple de Kant ou de Rawls. Encore faudrait-il les appuyer sur des fondements anthropologiques. Par exemple, si on admet comme pertinente la description de l’homme comme homo œconomicus ou encore celle de David Gauthier qui en fait un « maximisateur » rationnel, on voit mal comment un tel individu pourrait défendre la priorité du juste sur le bien. Inversement, si on pense que les affects peuvent être aussi, voire plus efficaces que le calcul égoïste, alors on pourra imaginer que les individus trouvent leur bonheur autant dans le travail bien fait que dans l’argent que rapporte ce travail, ou encore qu’ils préfèrent vivre dans une égalité conviviale – même frugale – plutôt que dans la solitude glacée de la compétition économique.

La laïcité n’a de sens que dans la perspective de l’émancipation

Ce qui nous amène au fond de la question. La morale – une morale humaine dans laquelle tous pourraient se reconnaître – est inséparable d’un certain ordre politique. La conception républicaniste qui soutient l’idéal de la liberté comme non domination offre le terreau social qui rendrait effective une telle morale. Il s’agit ici d’affirmer que l’homme ne peut être libre que dans une cité libre, c’est-à-dire une cité à la fois indépendante – par exemple de puissances étrangères qui voudraient lui dicter sa loi – et protégée contre la tyrannie des « grands » qui naturellement cherchent à opprimer le peuple, pour reprendre ici un schéma machiavélien dont la pertinence reste parfaitement actuelle.
L’idéal républicain, tel que le défendent les républicanistes, est fondamentalement émancipateur. La laïcité s’inscrit tout naturellement comme une des composantes essentielles de cet idéal. Car il s’agit évidemment de la très vieille revendication de la liberté de conscience (nul ne peut être inquiété pour l’expression de ses opinions même religieuses), mais plus encore de l’émancipation intellectuelle des citoyens des obscurantismes en tous genres, non parce que nous croirions en la promotion d’une raison abstraite (la déesse Raison !) mais parce que la liberté ne peut pas vivre quand l’espace politique est soumis aux pressions incessantes de groupes de pression religieux dont le mot d’ordre commun est « soumission », soumission à Dieu, soumission à un prétendu ordre naturel immuable, soumission à l’injustice (qui ne serait que le prix que nous devrions payer pour nos péchés).
Si nous abordons les choses de ce point de vue, le regard que nous devrions porter sur l’enseignement de cette « morale laïque » change radicalement. Nous n’avons pas besoin d’une morale laïque, mais d’une école laïque apte à former des citoyens capables de juger par eux-mêmes. Ce qui veut dire une école qui instruit réellement. Pas cette école qui a broyé les programmes d’histoire au nom de fumeuses considérations méthodologiques ou épistémologiques, privant les jeunes gens de la connaissance de la continuité historique qui est aussi la continuité des luttes émancipatrices (de 1789 à 1945 ou 1968 pour la France). Il serait nécessaire aussi de se demander si on doit bien continuer d’enseigner aux élèves de sixième l’histoire racontée par la Bible comme si c’était vraiment de l’histoire. Si l’on veut que l’école soit laïque, il faut enfin refuser obstinément l’envahissement des programmes scolaires par les « grands enjeux du monde contemporain » et autres questions sociétales qui touchent jusqu’aux programmes de SVT (la question du genre ou celle du plaisir sexuel sont au programme de SVT en première). La laïcité de l’école exige également que les groupes de pression économiques soient tenus en lisière, alors même que toutes les réformes successives des dernières décennies tendent de plus en plus à leur ouvrir la porte du sanctuaire. L’école ne peut rester laïque que si elle est préservée, autant que faire se peut, de l’intrusion des affrontements idéologiques et des groupes de pression. Bref si le savoir reste au centre de la relation pédagogique. Le savoir et rien d’autre. Pas même l’introuvable morale laïque.
On n’en déduira pas qu’il faut rejeter tout « l’héritage » des religions. L’Ancien et le Nouveau Testament peuvent parfaitement être lus et étudiés mais comme des œuvres humaines, simplement humaines, méritant par là un examen critique comme celui que Spinoza leur a déjà fait subir voilà trois siècles et demi. S’il faut enseigner le « fait religieux » comme fait social, historique et philosophique, il n’y aucun problème. C’est d’ailleurs ce que l’école laïque a toujours fait, avec une bienveillance et une ouverture d’esprit que l’on chercherait en vain du côté des adversaires de la laïcité et de la pensée libre. Tous les élèves, bon gré mal gré ont entendu parler de Pascal, mais pratiquement jamais de ses adversaires libertins…
Plutôt que la morale laïque, nous aurions besoin que l’État respecte complètement le principe de laïcité. Est-il possible de donner des leçons de morale laïque quand la laïcité est méconnue dans les départements placés sous le statut concordataire ? Pour ne rien dire de Mayotte. La réponse est évidente. Soit la laïcité est véritablement un principe constitutionnel et alors elle doit s’appliquer sur tout le territoire de la république « une et indivisible ». Soit elle n’est qu’une vague référence morale, voire moralisante, et alors on serait tenté de comprendre l’enseignement de la morale laïque comme le mauvais cache-misère d’un recul grave sur le principe de la laïcité elle-même.
Enfin, la laïcité n’est pas équivalente au principe de tolérance. La tolérance religieuse, telle qu’elle fut défendue aux XVIIe et XVIIIe siècle marqua sans doute un important progrès. Mais elle se limite à la tolérance des diverses religions. Locke, par exemple, excluait les athées du principe de tolérance, au motif que ceux qui ne croient pas en Dieu ne craignent point l’enfer et par conséquent sont plus prompts que les croyants à trahir leur parole… La tolérance s’accompagne fort bien de la soumission de l’espace public aux groupes religieux. Le Royaume-Uni est tolérant mais l’anglicanisme est religion d’État. Les États-Unis sont tolérants mais les présidents prêtent serment sur la Bible et on ouvre la session du Congrès par une prière. Au nom de la tolérance et des « arrangements raisonnables », le Canada a fini par « sous-traiter » une partie du droit civil aux communautés musulmanes appliquant sur le territoire canadien la loi islamique. La laïcité au contraire, sans jamais remettre en cause la liberté de conscience, cantonne la religion dans l’espace privé et permet aux individus de s’émanciper de la tutelle religieuse, quelle qu’elle soit.
La défense de la « laïcité à la française » n’est pas le fait de quelques anticléricaux fanatiques auxquels il faudrait opposer une « laïcité ouverte » que réclament à corps et cris tous les partisans de l’embrigadement religieux et de l’obscurantisme. Elle est tout simplement l’accomplissement des promesses émancipatrices contenues dans les œuvres des grands philosophes des Lumières, comme Spinoza, Diderot ou même Rousseau – chez qui le déisme s’accompagne d’une vigoureuse polémique contre les religions instituées. En montrant que l’espace public se passe fort bien de la soumission religieuse, la laïcité à sa manière montre que les hommes peuvent se gouverner eux-mêmes, démocratiquement et pour cela « ni Dieu, ni César, ni tribuns » ne sont nécessaires.
Denis Collin
Notice :
Denis Collin, né en 1952, est professeur agrégé de philosophie, docteur ès Lettres et Sciences Humaines ; il enseigne en lycée (Évreux) et il assure les cours de philosophie politique et philosophie en langue italienne à l’Université de Rouen.

Principaux livres publiés :

Comprendre Marx et le Capital, un guide graphique, Max Milo, 2011
La longueur de la chaîne, Max Milo 2011
Vico et l'histoire, SCEREN, 2010
Le cauchemar de Marx, Max Milo, 2009, traduit en tamoul
Comprendre Machiavel, Armand Colin, collection "Lire et Comprendre", 2008
Comprendre Marx (Armand Colin, 2006) – traduit en brésilien et en turc
Revive la République (Armand Colin, 2005)
La matière et l’esprit (Armand Colin, 2004, collection “L’inspiration philosophique”)
Questions de morale (Armand Colin, 2003, collection “L’inspiration philosophique”),
Morale et Justice sociale (Editions du Seuil, 2001, collection La couleur des idées)
En collaboration avec Jacques Cotta, L'illusion plurielle - Pourquoi la gauche n'est plus la gauche (JC Lattès, Paris, 2001)
La fin du travail et la mondialisation (Editions L'Harmattan, Paris 1997)
La théorie de la connaissance chez Marx (Editions L'Harmattan, Paris 1996)



[1] Voir Pierre Bayle, Pensées diverses sur la comète, GF-Flammarion, 2007
[2] Interview de Noberto Bobbio par Otto Kallsteuer, “Die Zeit” (29/12/1999), reprise dans “La Stampa” (30/12/1999).
[3][3] Voir en particulier Pierre Legendre, Sur la question dogmatique en Occident,I et II, Fayard, 1999 et 2006
[4] Karl-Otto Apel, Discussion et responsabilité, Le Cerf, 1996
[5] Jürgen Habermas, De l’éthique de la discussion et Morale et communication, Flammarion, collection « Champs », 1999
[6] Ernst Tugendhat, Conférences sur l’éthique, Puf, 1998
[7] Denis Collin : Morale et justice sociale, Le Seuil, Paris, 2001, collection “ La couleur des idées ”

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 For my English-speaking readers, English translations of some of my works are available, generally in ebook format.