Impostazione
del problema
Che cosa
possono fare i filosofi in materia di politica? Che cosa la politica ha da fare
colla filosofia? È cosi che capisco l’interrogazione a cui ci invita la rivista
Koinè. Cio che si può ancora tradurre altrimenti: cos’è lo status della
filosofia politica?
La locuzione
“filosofia politica” è problematica perche sembra un pleonasmo: la filosofia, fin da la sua nascita in
Grecia, fu politica. La filosofia di Platone e, da una parte all’altra, una
filosofia politica. Nel Gorgias, Socrate
lo dice: “Sono uno fra i rari Ateniesi, per non dire il solo, chi si dedichi
al’arte politico.” (521d) Ora, secondo Whitehead, “la filosofia occidentale non
è altro che un seguito di note in pie di pagina ai dialoghi di Platone”. E, di
fatto, non c’è uno solo grande filosofo da cui la dimensione politica non fosse
fundamentale. Secondo Aristotele, la politica è la “scienza architettonica” che ordina l’etica. Benche si tratti
qui del svalorizzare della vita politica, la più grande opera d’Agostino è
certamente la sua “filosofia politica”, La Città di Dio. Se la
dimensione politica è evidente per Spinoza, Rousseau, Kant e Hegel, si
obsserverà anche che un filosofo cosi Descartes, chi aggira con cura ogni
diretta presa di posizione nel campo politico (larvatus prodeo!) propone
una filosofia di cui le implicazioni politice sono importanti.
Ogni filosofia
è politica nella sua essenza, poiché, ponendo la domanda centrale della
possibilità e del statuto della verità, essa
define, le condizioni dell’enonciazione vera e, dunque, le condizioni e
le forme del dibattito pubblico, anche se questo dibattito è limitato o deve
limitarsi alla comunità dei dotti. La filosofia di Platone, nella sua feroce
battaglia contra i sofisti e contra la tesi attribuata a Protagora secondo cui
“l’uomo è la misura d’ogni cosa”, è vero e proprio una battaglia filosofica. E
per cio, tutti i dialoghi di Platone sono politici, e non solo La
Repubblica, Il Politico, o Le leggi. Per le stesse ragioni, ma in
senso inverso, la metafisica del Aristotele, e la teoria della conoscenza che e
congiunta ad essa, ordina ampiamente il giudizio che porta sul migliore dei
governi e, in particolare, sulla
possibilità che tale migliore dei governi fosse questo della larga ceta media.
In tutto un altro ordine di idee, quando Descartes, nella sesta parte del “Discorso
del metodo” annuncia che la nuova scienza che egli vuole fondare, sarà
principalmente utili e che permetterà l'uomo di "diventare come maestro e
possessore della natura", è indicato il programma politico della
modernità.
Per quanto non
si può abrogare ogni distinzione fra i diversi rami della filosofia, anche se
si può contestare la kantiana fratturà fra la ragione pura nel suo uso teorico
e la ragione pratica. Le norme della vita buona e della politica non
scaturiscono, in univoco modo, dalla conoscenza che possiamo avere della nostra
realità e della realità del mondo in cui viviamo. La prudenza pratica è chiamata al soccorso di
una teoria che viene meno. Anche se per un spinozistà contestando l’esistenza
di una facoltà della volontà diversa del intelletto, cio che devo fare è sempre
l’effetto adegueto di cio che capisco, cosi pratticamente non posso concepire
compiutamente la concatenazione delle idee cosi come esse sono produtte “in Iddio”,
ne consegue che, il più spesso, l’agire dipende dell’immaginazione e
dell’opinione più della ragione dretta.
Cosi, qualsiasi
modo di cui si prende il problemà, si dève ammettere che ci sono buone ragioni
di distinguere la filosofia politica della filosofia in genere, come anche si
può distinguere la riflessione normativa della teorià generale della vità
sociale.
Col marxismo di
un lato, lo sviluppo delle scienze sociale dal’altro, il Novecento, prima, ha
veduto la relativa cancellatura della dimensione morale e politica della
filosofia. La conoscenza scientifica delle società umane e quella della mente
umana non permettereberrò d’agire sull’uomo come si age sulle cose? Michel
Foucault conclude l’ultimo capitolo di Le parole e le cose, capitolo
consacrato alle scienze umane, evocando la cancellatura del’uomo come “alla
confine del mar un viso di sabbia”. Se i comportamenti umani e le forme
dell’organizione sociale sono di competenza della positività delle scienze
umane, in ogni caso è la dimensione normativa del pensiero che è messa
fuorigioco. Dal suo lato, il marxismo “standard” conduce a una conclusione
dello stesso genere. Le “leggi della storia” si impongono chiunche siano le
volontà umane e i marxisti si difendono generalmente da lottare contro il capitalismo
per ragioni morali. Il capitalismo, dal suo tempo, era “nel senso della
storia”. I marxisti constatano che il tempo del capitalismo è obbiettivamente
terminato e che esso dève lasciare il posto a un modo di produzione superiore.
Da qualsiasi lato si torna, l’epoca è “al di là del bene e del male”.
Il ritorno in
vigore della filosofia politica è chiaro dagli anni settanta, prendendo la
contro-piedi della filosofia delle scienze, del marxismo e della psicoanalisi che sembravano avere dominato
tutto il campo della ricerca in Filosofia nel Novecento.
Alla stessa
epoca, l’ultimo erede della Scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, effetua una
svolta che l’allontana definitivamente da Marx e dalla teoria critica e
torna a un “kantismo” assai insipido e adattato ai nuovi oggetti della
riflessione habermassiana, cioè la « democrazia post-nazionale » che
starebbe realizzandosi nell’Unione Europeana. Questa via seguirono anche i
filosofi italiani come Salvatore Veca oppure i Francesi come Jean-Marc Ferry –
un discepolo di Habermas. In questo dibattito, si deve anche segnalare
l’importante ruolo giocato dal’economista Amartya Sen.
Partando dalla
filosofia di John Rawls, mostrerò che il tentativo di costruire una teoria
politica pura, indépendante di ogni concezione sostanziale di vita buona è una chimera. In secondo luogo, cercherò di
mettere a fuoco i vivoli ciechi del marxismo standard, che rinviano ad un
malinteso del proprio posto della
politica – la quale non scaturisce automaticamente dall’analisi dello sfrutamento
capitalistico. Finalmente, sostenrò la necessità di tornare ad una globale
concezione della filosofia.
La contraddizione fondamentale della teoria della giustizia di Rawls
Per bene capire
cio che è in causa, cominciamo dunque colla Teoria della Giustizia de
Rawls (da ora in poi TG). Rawls cerca di stabilire i principi fondamentali di
una società bene ordinata, partendo dal fatto del pluralismo. Per questo scopo,
si deve scartere tutti globali concezioni del bene, poiché queste sono sempre
più o meno legate ad une fede religiosa
o ad un pensiero metafisicoche le rendono inabiliper la fondazione dei principi
di una società pluralistica. I principi di giustizia non possono implicara, di
un modo o un altro, una concezione determinata del senso dell’esistenza umana.
Debbono essere neutrali quanto alle fini ultime se vogliono essere oggetto
possibile di uno stabile consenso per intersezione su un grappolo di valori
politici fondamentali.
Rawls vuolè
mostrare che si può trovere una procedura imparziale che dia una
giustificazione dei principi di giustizia. Una TG in grado d’essere l’oggetto
di un consenso per intersezione non può essere che procedurale se si vuolè
evitare ogni contestazione che inevitabilmente nascerebbe poiche diversi
concezioni delle bene potrebbero affrontarsi. Rawls non è solo da pensare cosi:
la filosofia del diritto e la filosofia morale contemporenee sono,
fondamentalmente, filosofie procedurale, che concipono la stessa democrazia
come una procedura permettenta la coabitazione di individui égoisti in una
societa regolata dalle leggi del mercato. Il mercato come procedura cieca
d’allocazione delle resorse e perfino presentato come il prototipo del sistema
“neutrale quanto ai valori.
La giustificazione procedurale cade in uno circolo vizioso
La
giustificazione procedurale non è un fronzolo dei principi di giustizia di
Rawls ; essa mira a mostrare che si può emancipare la TG di ogni
concezione del bene e di renderla compatibile col’ambito liberale borghese dove
si spiega. Per Rawls è un argomento importante : la TG deve esserere
compatibile colle società democratice esistante, cioè, grosso modo, colle
società capitalistice come erano alla fine degli anni Sessanta.
I principi di
giustizia, principio d’uguale libertà per tutti e principio di differenza –
cioè il principio che giustifia le disuguaglianze quando sono a vantaggio di
ciascuno e fruttano, in primo luogo, ai più svantaggiati –, sarebbero, secondo
Rawls, i principi che scelterebbero individui razionali, posti sotto il velo
d’ignaranza e usando solo la strategia del MAXIMIN, proveniente dalla teoria
dei giochi.
La procedura
del velo d’ignoranza è concipita come imparziale, comme una regola di
gioco. Dunque suppone che i legislatori,
posti sotto il velo d’ignoranza abbiano già accettato di giocare il gioco! I
principi de giustizia scaturiscono da una procedura imparziale, ci dice Rawls.
Tuttavia, la giustizia e l’imparzialità non sono due nozioni straniere.
L’imparzialità è già una certa idea della giustizia, una idea molto generale,
ridotta alla sua più semplice espressione, pero una idea della giustizia ;
vuole dire che tutti gli individui debbono essere trattati nel stesso modo.
Suppone dunque l’ugualianza dei diritti. In altre parole, non si può concipire
una procedure capace di stabilire i principi di base di una società giusta,
senza avere già una certa concezione della giustizia, anche riassumeta alla
liberté e l’ugualianza. Dunque è naturale che
la procedura del velo d’ignoranza produca il principio d’uguale libertà
per tutti poiché questo principio è al fondamento della costruzione
intellettuale di Rawls. Un individuo participando, sotto il “velo d’ignoranza”
all’elaborazione dei principi di una società giusta è qualcuno che ha già una
certa concezione del buono. Per esempio, il Callicles del dialogo di Platone
non accetterebbè la regola del gioco di Rawls. Socrates non invalida le tesi di
Callicles usando di una procedura, ma mostrando che esso non sappia cio che
dice, perchè ha abandonato il terreno del vero e del bene. In oltre parole, la
TG di Rawls, pretendendo appoggiarsi
sulla pura procedura, assomiglia al barone di Munchausen chi voleva uscire
dal palude tirando sui propri stivali.
C’è un secondo
problemà: Rawls critica severamente l’utilitarismo, perchè questa dottrina non
potesse produrre i fondamenti politici di una società bene ordinata. In
effetto, l’utilitarismo, admettando una dottrina del sacrificio di certi
individui se questo sacrificio è utile alla massimizzazione della felicità
comune, rinuncia al stesso tempo a trattare gli individui come possessori di
diritti inviolabili. Però, c’è forse una dimenzione utilitaristica nella TG di
Rawls poiché il principio di differenza è giustificato dalla sua efficienza e
la cresciutà del benessere – la disuguaglienza è giustificata se è al più
grande vantaggio di tutti. Ma Rawls non dice perchè occorre ammettere che una
società non egualitaria e ricca è più giusta di
una società egualitaria e più povera? L’uguaglianza è più favorevole
all’amicizia della disuguaglianza e si può preferire degli amici poveri a dei
nemici ricci!
È di tanto più
curioso che c'è da Rawls una vera tensione perché sembra trovare spesso
abbastanza ripugnante la corsa all'arricchimento nelle nostre società e, poi,
perché il principio di differenza al di là della sua giustificazione per
l'efficacia può ricevere un'interpretazione più radicale che la TG non esclude
(Vedere Jacques Bidet, John Rawls et
la théorie de la Justice, PUF, 1995, collection « Actuel Marx
Confrontation).
Il principio di differenza è indeterminato
I principi di
giustizia della TG potereberro essere l’oggetto di un consenso per
intersezione, proprio perchè sono
indeterminati. La TG sarebbe un coltello senza lama.
In effetto, il
principio di differenza è, in realtà, basato sull’optimum di Pareto: una
distribuzione è un optimum de Pareto se ogni tentativo di migliorare la
situazione di uno dei soci non può farsi che a detrimento di un altro. Breve,
non si può modificare la ripartizione che finché tutti guadagnano. Il problema è che questo tipo di ripartizione è
fondamentalmente indeterminato. Se le
disuguaglianze sono giuste dal momento che la situazione di più sfavoriti è
migliorata, allora le più grandi disuguaglianze possono essere giustificate.
Dopo tutto, uno degli argomenti in favore della libertà del mercato è che
l'aumento delle disuguaglianze sia compensato da un miglioramento del livello
di vita di più poveri. Si potrebbe ammettere anche come giusta una
ridistribuizione a sfavore di più poveri al motivo che sarebbe meno cattiva del
mantenimento dello statu quo: abbassare gli stipendi permette di
aumentare i profitti e di creare degli impieghi per domani, dicono gli
economisti liberisti : ecco che potrebbe essere perfettamente compatibile con
una versione moderata del principio di differenza.
Poi, Rawls
analizza la società pressappoco come se era composta unicamente di salariati o
di produttori indipendenti che scambiano su un mercato. Sono messi fuori
circuito i rapporti di proprietà e le diverse forme di rapporti di dominio.
Ci sarebbe a
scavare questo aspetto : le presupposizioni individualistiche di Rawls - il suo
eredità rousseauisto e kantiano - vietano concepire la società come un
strutturato, cioè come un insieme in che gli individui dipendono uni dagli
altri dei diversi modi. Ora i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione
costituiscono l'elemento decisivo di questa struttura sociale, decisivo a due
titoli:
1.
Le
disuguaglianze nella proprietà e quelle generate dalla proprietà sono molto più
importante delle disuguaglianze di redditi del lavoro, salariato o meno, e
nella misura in cui conseguono tanto e stesso più dell'eredità, cioè di
privilegi di nascita, delle differenze di talenti o di merito, sono le meno
giustificabili.
2.
I
rapporti di proprietà non sono semplicemente dei rapporti degli individui alle
cose ma dei rapporti che danno ad un individuo potere su un altro individuo: è
tipicamente il caso del rapporto salariato.
L'indifferenza
manifestata da Rawls sulla questione della proprietà ridurrebbe la TG ad una
semplice giustificazione dello stato keynesiano, del “welfare”, ma precisamente
ad un momento dove il “welfare” è entrato in crisi. Rawls afferra chiaramente
che il contratto è la forma il più generale della società moderna il suo
”metastruttura”, siccome lo direbbe Jacques Bidet. Ma il contratto nel processo
storico concreto che lo vede diventare progressivamente dominante posa
simultaneamente d’un lato l'uguaglianza tra i cittadini e la libertà e, del
altro lato, il dominio. Su questo punto si può leggere il capitolo VI, sezione
II del libro I del Capitale di Marx.
Rawls riassume
così il principio di differenza : “tutti valori sociali, libertà e possibilità
offerte all'individuo, redditi e ricchezza, così come le basi sociali del
rispetto di sé stesso devono essere ripartite ugualmente a meno che una
ripartizione disuguale di un'o di tutti questi valori sia a favore di
ciascuno.”
Questa
formulazione fa del principio di differenza un principio di uguaglianza che
integra la domanda dell'efficacia. Ma chi giudica che le disuguaglianze
accettabili veramente lo siano ? Solo lo possono i più " sfavoriti ",
a patto di aggiungere che i più sfavoriti lo sono per ragioni molteplici, il
loro situazione sociale, operai faccia a capitaliste ; il loro genere, ecc.)
Questa lettura perfettamente coerente colla TG conduce a porre delle domande
che Rawls evita : se le disuguaglianze ingiuste esistono, bisogna agire per
eliminarle ? Gli sfavoriti sono fondati a farlo ? Rawls si guarda bene dal
rispondere a queste domande.
Non si può fare a meno di una concezione sostanziale del bene
Rawls inciampa
continuamente in un problema di cui si tratta ancora in Liberalismo politico
: il problema della distinzione fra la TG come teoria politica e le diverse
concezioni sostanziali della vita buona. L'idea di una neutralità della TG al
riguardo di tutte le concezioni ragionevoli del bene mi sembra pressappoco
insostenibile. Ho provato di mostrare tutto ciò nel mio libro Morale et
Justice sociale[1].
Un esempio permette di capirlo.
Rawls non può
dire chiaramente ciò che chiama concezione ragionevole del bene. Quello da cui
la vita è guidata dalla fede ha egli una concezione ragionevole del bene ? Se
sembra ragionevole di ammetterlo, si cade su un osso. La TG suppone un Stato
laico poiché la libertà di coscienza è il suo valore cardinale e che tutte le
coscienze devono essere trattate su un piede d’uguglianza: alcuni credenti
posti sotto velo di ignoranza ed applicando il “MAXIMIN” sceglierebbe un Stato
laico, perchè lo Stato laico è il migliore Stato per le minoranze religiose; si
sa che i cattolici olandesi sono dei difensori della laicità, tutto come i
protestanti francesi ! Ma immaginiamo una religione nella quale la separazione
del potere temporale e del potere spirituale sarebbe un'idea assurda, addirittura
empia. Il semplice fatto che i sostenitori di questa religione accettino di
vivere in un regime di laicità può sembrare contraddittorio con le loro
credenze più profonde e costituirebbe dunque un inizio di violazione della loro
libertà di coscienza. La laicità è in effetti solamente accettabile per quelli
che considerano il rapporto a Dio come un affare privato, come un problema di
coscienza, dunque quelli che dividono i valori nate in Occidente tra il
Rinascimento e l’età classico. Del resto, il stesso Rawls l'ammette.
Dopo Rawls
La TG ha aperto
una larga discussione filosofica che ha rinnovato profondamente la filosofia
politica. Che si trattasse di sviluppi a partire dalle tesi di Rawls o di
risposte a Rawls, abbiamo avuto una ricca mietitura di pensieri filosofici.
Certi autori come Bernard Williams[2]
mostrano che la TG di Rawls presente paradossalmente le stesse attrattive
ingannevoli dell'utilitarismo. Amartya Sen e, al suo seguito, Salvatore Veca
hanno criticato il carattere troppo radicale dell'anti-utilitarismo della TG.
Veca[3]
parte di una constatazione: l'opposizione rawlsiana tra utilitarismo e morale
deontologica e messa seriamente in
questione oggi. L'idea rawlsiana di una teoria politica neutralistica, cioè
indipendente di ogni ideazione particolare del bene spesso è confutata non solo
dai comunautaristici o quelli che si chiamano i neo-aristotelici, come
MacIntyre, ma anche dai liberali piuttosto radicali come Ronald Dworkin.
Per Dworkin,
c'è un modello sostanziale di vita buona, quello che definisce la qualità
principale di una vita degna di essere vissuta e questo modello è implicito in
una morale pubblica liberale fondata sui diritti. Si troverà di ciò una
spiegazione abbastanza dettagliata nel suo libro, Sovereign Virtue.[4]
La linea direttrice di Amartya Sen è anche di tenere insieme vita giusta e vita
buona in una prospettiva fondata sui diritti ed il libertà della persona.
Dunque abbiamo
teorie che “prendono i diritti sul serio”[5]
, per parlare come Dworkin, mentre l'utilitarismo classico, soprattutto quello
di Bentham, si burla di diritti dell'uomo che qualifica di “sofismo
metafisico”. Ma queste teorie integrano degli obiettivi e dei problemi che
erano riservati piuttosto alle morali utilitaristiche.
Veca, in quanto
a lui, sottolinea che si dèva considerare l'individuo sotto un doppio aspetto:
come paziente morale e come agente morale. Una buona TG deve prendere in conto
queste due dimensioni e solamente sotto
queste due dimensioni può essere definita la qualità della vita. Così concernente
l'utilitarismo, Veca non si interessa ad una critica dell'utilitarismo ma
piuttosto allo stabilimento dei suoi limiti. “L’utilitarismo mette a fuoco la
nostra dimensione di pazienti morali ed è rispondente solo a questa
dimensione, sulla base dell’idea che questa è la sola dimensione che conta o
che deve contare in etica.” (pp. 40/41).
In dispetto di
questa limitazione, Veca afferma che non si può sottovalutare la valore
dell'utilitarismo: “basta pensare alla
versione dell'utilitarismo negativo in cui l'obiettivo è quello della
minimizzazione della sofferenza socialmente evitabile.” Dunque sono non
pertinente, le tesi critiche che consistono a “far evaporare l’importanza della
dimensione di paziente morale”. Al contrario : “Una tesi che critica la pretesa
di di completezza e il monismo proprio dell’utilitarismo, rende giustizia al
nucleo della morale utilitaristica e tuttavia non accetta che la dimensione del
nostro essere pazienti morali sia l’unica dimension che conti e cui debbano
essere rispondenti i nostri criteri di valutazione etica della politica e delle
politiche.” (p.41)
In poche
parole, Veca sostiene piuttosto una tesi che cade sull'incompletezza
dell'utilitarismo. Le teorie fondate sui diritti fondamentali della persona
prendono in conto la dimensione degli individui come agenti morali. Ma delle
tali teorie, ci sono due versioni possibile: la versione difesa dai
libertaristici, cioè essenzialmente Nozick e la versione difesa dal liberismo
politico.
Il prospettivo
libertaristico è anche un prospettivo “monisto”, poiché le concezioni del bene
non hanno nessuno posto nello spazio politico. I diritti delle persone sono
solamente dei diritti negativi ed ogni politica che si occuperebbero di
promuovere il benessere collettivo violerebbe immancabilmente i diritti delle
persone, perché ridurrebbe necessariamente lo spazio delle scelte individuali.
“Nella prospettiva del libertarismo è facile riconoscere le ragioni della
disgiunzione radicale fra le questioni di vita giusta e le questioni di vita buona.
La disgiunzione non dipende, come alcuni tendono a ritenere, dal’impegno
deontologico delle teorie libertarie: essa dipende propriamente dall’impegno
anti-consequenzialistico di una prospettiva centrata sulla sole dimensione
rilevante del nostro essere agenti morali.” (p. 42)
Per Veca, la TG
è al contrario una teoria deontologica che non rinuncia ai criteri di
valutazione che rispondono alle conseguenze delle istituzioni e dei politici
sui piani di vita completi degli individui. C'è in una tale ideazione della
giustizia un spazio per una presa in conto parziale del bene delle persone. Il
modo di cui Rawls introduce i beni sociali primari definisce una nozione
pubblica, impersonale, della qualità della vita. I beni primi sono dei beni
definiti in modo strumentalo difatti poiché sono i mezzi che permettono di
realizzare le fini diverse degli individui.
La posizione di
Salvatore Veca non è per l'esattezza una sintesi delle concezioni antagoniste
in materia di morale pubblica. È piuttosto una posizione pluralistica, cioè una
posizione che prende per il fatto che nessuna concezione esistenta presenta i
caratteri di completezza sufficienti. Si
potrebbe dire che Veca sostiene concezione debole della TG, una concezione particolarmente
sensibile alle critiche comunautarie o utilitariste.
Tutti questi
tentativi sono estremamente simpatici. Si indovina bene che Rawls, Sen o Veca
siano animati dai migliori sentimenti del mondo e che desiderano ardentemente
una società la migliore che quella nella quale viviamo. Per esempio, chiama in
causa le disuguaglianze, ma mai il carattere sistemico di queste disuguaglianze
non è interrogato. Sono trattate come i fatti naturali. La “globalizzazione” è
concipita anche come una realtà naturale o quasi naturale senza sottolineare quanto
questa “globalizzazione” ha per condizione lo sviluppo disuguale e combinato
delle differenti economie capitaliste. Veca chiede che si riflettesse ad una
concezione della giustizia oltre le frontiere nazionali ed ad una “politica interna
mondiale.” (p.164) A lui ispirano questa riflessione la reazione della
“comunità internationale” dopo il 9/11 e il fatto che les Stati Uniti siano
usciti dalla lora “solitudine imperiale”, chiamando in causa l’ONU e l’OTAN,
consultando la Russia e la Cina, e
dichiarando che i Palestiniesi hanno diritto a un loro stata, prima di
cominciare la guerra contro l’Afganistan, una guerra chiamata dallo stesso Veca
guerra per “neutralizzare le centrali del terrore globale” (p. 165). La
teoria astratta della giustizia, con tutte le sue finezze, lascia il posto alla
pura e semplice propaganda imperiale, prendendo per contante ciò che gli attori
del processo storico dicono di loro stessi. Si avrebbe potuto pensare che un
conoscitore di l'epistemologia come Veca avrebbe dato prova di una più grande
prudenza!
Tutti i
filosofi politici contemporanei non si sono messe al rimorchio del “nuovo
ordine mondiale.” Dworkin ha preso coraggiosamente posizione contro il “Patriot
Act” e le misure di restrizione delle libertà prese dall'amministrazione Bush
al nome della guerra contro il terrorismo. Ma, in un modo o nell'altro, la
filosofia politica quando si spiega nell'astrazione di ogni conoscenza concreta
delle strutture sociali e della storia è ridotta ad enunciare dei voti devoti
senza l'inferiore portata, o ancora a dare delle sanzioni trascendentali
all'ordine sociale esistante.
Difatti,
ammettiamo, come lo dice Veca, che il male c'unisce mentre il bene ci divide,
partiamo da ciò che genera il male, cioè l'ingiustizia. Questa non risiede dapprima
nella disuguale ripartizione delle ricchezze né nella disuguale capacità dei
cittadini ad accedere alle posizioni di potere. Anche dai Nambikwara studiati
da Claude Lévi-Strauss[6],
un popolo privato di tutto e che vive al limite della sopravvivenza, rimangono
delle disuguaglianze sociali e politiche, molto deboli ma reali : il capo ha
certi vantaggi, particolarmente quello di avere parecchie donne, in compenso
dei suoi doveri propriamente politici. Marx si burlava del “comunismo
grossolano” di certi dei suoi contemporanei che riducevano la lotta delle
classi alla domanda della grossezza della porta-foglio. Si potrebbe ammettere
anche che una parte delle disuguaglianze di reddito e di posizione sociale è
praticamente inevitabile, almeno all'orizzonte storico che possiamo tentare di
esplorare.
Invece, le
disuguaglianze che sono delle vere ingiustizie sono queste che esprimono dei
rapporti di dominio. E queste disuguaglianze ingiuste sono di accesso queste
che consegue dei rapporti sociali di produzione. Tra il capitalista e gli
operai, l'ingiustizia non risiede nel fatto che il primo o ricco ed il secondo
povero, ma nel rapporto di dominio che subordina il secondo al primo, rapporto
che è molto precisamente ciò che Marx chiama “capitale”. Quando lo stesso Marx
studia la trasformazione dello scambio commerciale in circolazione del
capitale, cioè quando mostra come il ciclo dello scambio per i bisogni M-A-M
cedo il posto al ciclo del capitale A-M-A', Marx mostra la trasformazione che
si opera nei rapporti fra gli attori, fra l’uomo che posseda i dennari e
l’operaio chi ha solamente la sua pelle a vendere. Il lavoratore “vende la sua
pelle”, dice Marx. Ecco esattamente ciò che è l'alienazione e lo sfruttamento,
due termini inseparabili. Nel paradiso capitalista, il principio di uguale
libertà per tutto è rispettato solamente sotto la forma ironica che gli dava
Anatole France: il povero ed il ricco hanno tutti due il diritto di dormire
sotto i ponti !
In conclusione,
sotto qualche angolo che si prenda il problema, appare chiaramente che la
filosofia politica separata di una teoria globale del processi
socio-cronostoria è una teoria troncata e destinata a mancare il suo oggetto.
IV. Alcuni ragioni del crollo del marxismo
Il ritorno di
vitalità della filosofia politica è correlato, come l'abbiamo detto più alto,
al declino ed al crollo finale del marxismo. Non ho l'intenzione di riprendere
qui la spiegazione dell'insieme del bilancio del marxismo storico.[7]
mi accontenterò di alcune indicazioni che mirano suggerire che nel marxismo,
come nel pensiero di Marx sé il politico costituisce un vero punto cieco
Il deperimento dell Stato : il ritorno all'utopia
La prospettiva
a lungo termine del pensiero di Marx è tutto salva una prospettiva politica. Se
non c'è filosofia politico marxiana o marxista, la ragione ne è semplice : la
storia nel fase comunista smetterà di essere politico poiché non sarà
strutturata più dal governo degli uomini. Per Marx, la dittatura del
proletariato o un governo democratico radicale genere Comune di Parigi, sono
solamente delle formazioni transitorie, destini a preparare la loro propria
scomparsa. Perché la vera emancipazione dell'individuo non può risiedere in un
sistema sociale e politica in che la personalità resta troncata, poiché
comparata e valutata secondo un criterio determinato ciò che è ancora nella
prima fase del comunismo. Nella Critica del programma di Gotha Marx definisce
il comunismo finito nei termini da cui il carattere utopico salta agli occhi,
in ogni caso oggi. “In una fase più elevata della società comunista, dopo che è
scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro,
e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il
lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della
vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le
forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta
la loro pienezza, - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere
superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: - Ognuno secondo le sue
capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Note in margine al programma
del Partito operaio tedesco)
In L'evoluzione
del socialismo dall'utopia alla scienza (1880), polemizzando tanto contro i
partigiani di Lassalle quanto gli anarchi, Engels riassuma la prospettiva nata
dalla presa del potere dicendo: “Al posto del governo sulle persone appare
l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo stato non
viene "abolito": esso si
estingue.” Su questo punto e a questo momento marx e Engels sono
completamente d’accordo. Pero, la loro posizione è aberrante, stricto sensu.
È una mescolanza d’utopia e di radicalismo verboso molto strana.
Aberrante anche
è la descrizione che fa Marx della fase superiore del comunismo. L'idea che il
lavoro diventa il primo dei bisogni nel società comunista raffigura nei Manoscritti
del 1844, ma niente in Il Capitale va in questo senso. Al contrario.
Nel testo posto in conclusione del libro III, Marx si esprime molto chiaramente
contro questa idea. “Alla verità, il regno della libertà comincia solamente a
partire dal momento in cui cessa il lavoro dettato dalla necessità e le fini
esterne; si trova dunque, per la sua natura stessa al di là della sfera della
produzione materiale propriamente detta.” L'uomo non può dunque né liberarsi
per il lavoro, né liberarsi dal lavoro. Perché il lavoro appare come una
necessità ed una costrizione eterna. “Tutto come l'uomo primitivo, l'uomo civilizzato
è costretto di misurarsi con la natura per soddisfare i suoi bisogni,
conservare e riprodurre la sua vita,; questa costrizione esiste per l'uomo in
tutte le forme di società e sotto tutti i tipi di produzione. Col suo sviluppo,
questo impero della necessità naturale si allarga perché i bisogni si
moltiplicano; ma si sviluppa il processo produttivo per soddisfarli allo stesso
tempo.”
È anche una
costrizione che, sotto un certo angolo può andare solamente allargandosi.
Tuttavia una certa forma di libertà può esistere nell'inquadro anche del
lavoro. Ma è una libertà limitata, e non il libero sviluppo delle potenzialità
che sono nell'uomo che può avverarsi solamente al là della sfera della
produzione materiale. Presenta due aspetti :
1.
Una
comprensione della necessità sufficiente per evitare lo spreco, razionalizzare
i rapporti tra l'uomo e la natura, preservare i due fonti della ricchezza
sociale, il lavoro e la terra.
2.
Se la
necessità del lavoro deve imporsisi eternamente, perché l'uomo resta un essere
naturale, resta che può sperare di abolire il dominio che i suoi propri scambi
esercitano su lui e dunque agire in quanto uomo socializzato.
L'uomo non può
sbarazzarsi della nécessità ; ne può organizzare solamente diversamente le
forme, nelle condizioni conformi alla sua natura. Resta che questa libertà,
acquistata sul campo della produzione materiale, è solamente una libertà
limitata; perché “è al di là che comincio lo sboccio della potere umano che è
la sua propria fine, il vero regno della libertà che può infiorare tuttavia
basandosi solamente su questo regno della necessità. Il riduzione della
giornata di lavoro è la condizione fondamentale di questa liberazione.”
Conclusione
prosaica, lontano dall'utopia della Critica del programma di Gotha. Il
lavoro non è il primo bisogno, è una realtà contraddittoria: non c'è
emancipazione senza lavoro e allo stesso tempo non ci di vera emancipazione che
all'infuori del tempo di lavoro. Dunque si può richiedere simultaneamente la
diminuzione del tempo di lavoro e richiedere non solo il diritto al lavoro per
tutti, ma ancora affermare che, come lo dicono le parole di L'internazionale,
" l'ozioso andrà ad ospitare altrove”.
Utopica, la
prospettiva tracciata da Marx ed Engels, l'è chiaramente d’un altro modo:
riprendono il formulo di Saint-Simon, “passare del governo degli uomini
all'amministrazione delle cose”. È tutto tanto sono le prospettive concernente
l'organizzazione del lavoro. Che cosa può volere dire l'idea che gli individui
non saranno più asserviti alla divisione del lavoro? Marx ha mostrato, in
seguito a Smith, che la divisione del lavoro e la cooperazione di cui è l'altra
faccia è la principale dei forze produttive. Come può sperare di fare sgorgare
l'abbondanza della forma cooperativa rinunciando alla divisione del travail ?
Si può, come Marx lo diceva ironicamente in L'ideologia tedesca, essere
cacciatore la mattina, pescatore il pomeriggio e “critico critico” la sera! Ma
questa debole divisione del lavoro, concepibile in una società di
cacciatori-raccoglitori, non è in una società evoluta. Medico essere la
mattina, fisico nucleare il pomeriggio ed artista-pittore la sera ?
C'avrebbero
anche molte cose da dire sul problema dell'abbondanza delle risorse. Marx pensa
con l'ottimismo degli uomini del suo secolo, scienziati ed industriali. Ma da
noi abbiamo appreso che vivremo necessariamente in un mondo alle risorse
limitate dove i produttori dovranno regolare i loro rapporti colla natura del
modo più economico. Ma se le risorse sono limitate, sarà impossibile dare “a
ciascuno secondo i suoi bisogno”, salvo a definire in anticipo ciò che sono i
bisogni di ciascuno.
Il punto cieco
Al totale il
pensiero politico di Marx soffre dunque, delle incontestabili debolezze e
contraddizioni. Si tratta di un pensiero fondamentalmente anti-politico di cui
il legame con Stirner, il vecchio “santo Max”, del 1845 è più forte di quanto
si non sia detto.
Sebbene non
costituisce principalmente in lei stessa un argomento inconfutabile,
l'esperienza storica, quella degli inizi della rivoluzione russa, permette di
capire meglio alcune delle conseguenze dei vicoli ciechi del pensiero di Marx
sul problema dello stato.
L'esperienza
russa poi sovietica è di tanto più interessante che la rivoluzione bolscevica,
nello spirito dei suoi principali dirigenti, doveva mettere in pratica i
principi teorici che Lenin aveva ricostruito in Lo stato e la rivoluzione.
Per Lenin e Trotski, la rivoluzione russa costituisce così un collocamento alla
prova delle lezioni che Marx trae dalla Comune da Parigi. Questo collocamento
alla prova si rivela catastrofico per questo lembo della pensiero di Marx e per
il marxismo rivoluzionario tradizionale. L'anti-parlementarismo di “La
guerra civile in Francia” è ricuperata da Lenin che insiste sul necessario
“soppressione del parlementarismo.”
Si tratta
puramente e semplicemente di sopprimere tutte le forme costituzionali del
potere politico, particolarmente ogni forma che riposa sulla separazione dei
poteri, e di scioglierli in un'organizzazione ultra-democratica nella quale
quelli che decidono eseguono. In realtà, queste assemblee agente, i soviets in
Russia, diventano molto rapidamente la coperta degli specialisti dell'azione,
cioè delle minoranze le più politizzate, ed il loro carattere ultra-democratico
si rovescia nel suo contrario. E, come l'avevano visto bene i pensatori
classici, l'assenza di separazione dei poteri trasforma la democrazia in
tirannide, ed nemmeno in "tirannide della maggioranza” perché la piramide
elettiva dei consigli di base fino al soviet supremo finisce ancora di fatto a
sistema più selettivo, meno rappresentativo che i sistemi censitari
tradizionali.
L'abolizione
della separazione tra lo stato ed i popolo cioè la fine della vecchia
distinzione tra Stato e “società civile” costituisci l'ultima grande lezione
marxiana della Comune di Parigi. È sviluppata a lungo da Lenin. Si può leggerla
in modo ironico, quando Lenin scrive : “Del momento che è la maggioranza del
popolo che domi lei stessa i suoi oppressori, non è più bisogno di un “potere
speciale” di repressione!”
Come spiegare
che gli stessi uomini che sostenevano questo tesi “democratica” hanno costruito
un apparecchio di stato in che il "potere speciale di repressione” ha
raggiunto un sviluppo illimitato ? Una risposta risiede probabilmente nella
volontà di non più considerare lo stato e la società civile come due sfere
separate. Lenin diceva che il governo operaio sia la cuoca al governo, ma si
realizzerà mettendo la polizia politica nella cucina degli appartamenti
comunitari. Sotto coperto di deperimento dello stato, del suo “estinsione” si
produce in realtà l'invasione dallo stato di tutte le sfere della vita, sociali
come private, ciò che è reso possibile, con una legittimazione ideologico
classica : lo stato che diventa lo stato del popolo tutto intero, non è più a
temere, quello che lo teme può non dunque che essere un nemico del popolo!
La questione
dello stato è il vero punto cieco del pensiero marxiano. Gli interventi
congiunturali di Marx su questa questione smarriscono più di quanto non aprano
la strada, come la regressione nell'utopia dell'estinzione dello stato e di uno
“al di là” del diritto ha giocato finalmente il ruolo di ideologia della salita
di una nuova classe o casta dominante nei paesi detti socialisti. Più
precisamente, è dapprima di avere voluto trasformare questi interventi
congiunturali e spesso molto polemici in una “teoria scientifica” chi
costituisce l'errore maggiore dei marxisti. In realtà, non c'è nessuno legame
logico tra le analisi strette del modo di produzione del Capitale e le
prospettive utopiche, tante quelli dei Manoscritti che della Critica
del programma di Gotha.
Certo, ci sono delle indicazioni interessanti
negli scritti di Marx ed Engels particolarmente sul ruolo della democrazia
parlamentare come forma di scioglimento del regno della borghesia. Ma rimane la
necessità di pensare una filosofia politica coerente a partire dall'analisi
critico della società capitalista come si può trovarla in Il Capitale.
Se lo stato è una realtà duratura e non un fantasma destinato a sparire a breve
scadenza, occorre bene un pensiero dello stato. E se si vuole guardarsi
l'orizzonte marxiano del comunismo, bisogna provare a pensare ciò che potrebbe
essere un Stato comunista, strano tanto quanto questa espressione possa sembrare
ai comunisti marxisti ortodossi (se ci sono ancora!)
V. Un comunismo non utopico
Al di là di una
filosofia politica spesso impotente e di una teoria critica della sociatà senza
mezzi di pensare proprio il politico, s’impone la necessità d’una sintesi. Se si
prende sul serio le rivendicazioni egualitarie ed il senso della giustizia che
sono inclusi nella tradizione della filosofia politica di Rousseau a Rawls o
Dworkin, si comprende facilmente che nessuna di queste rivendicazioni non
possono essere soddisfatte in una società che riposa sullo sfruttamento
dell'uomo per l'uomo. Se si pensa con Marx che non solo il modo di produzione
capitalista sia la causa di un'insopportabile alienazione della essenza umana e
che abbia suonato l'ora dell'emancipazione umana, si deve riflettere seriamente
al modo di cui quelle cose possono farsi politicamente ed uscire una volta per
tutte dalle utopie che hanno condotto il marxismo alla catastrofe.
Avendo
rinunciato all'utopia, si dovrebbe lavorare a pensare un comunismo non utopico.
Restando fedele a ciò che è al fondo del pensiero di Marx, dobbiamo partire
dall'inspirazione alla libertà che è stata il motore dello sviluppo
rivoluzionario, in Europa dapprima ed altrove poi da forse mille anni, dal
momento dove nei comuni i commercianti e gli artigiani hanno scosso le catene
del feudalismo e della dominio clericale. Ora questo vasto movimento
emancipatore ha aperto la via allo sviluppo del capitalismo che ricostruisce un
nuovo assoggettamento, quello dei lavoratori salariati. Nelle condizioni
normali, passiamo in grosso il terzo della nostra vita a lavorare ed un altro
terzo a rimetterci per riprendere il lavoro l'indomani. Per l'essenziale dunque
l'uomo attivo, l'uomo quando manifesta la sua essenza umana lo fa nella
condizione di lavoratore salariato, cioè che il lavoro sia per lui alienazione.
Essere sotto la
padronanza di un altro uomo nel lavoro è una situazione totalmente
contraddittoria con ogni idea della libertà. Come il cane della favola de La
Fontaine, ci siamo abituati talmente al collare che finiamo per dimenticarlo
poiché questa catena garantisce il nostro pasto e c'accontentiamo spesso di
trattare per il meglio la lunghezza della catena e la qualità delle crocchette.
Ma può chiamarsi diversamente questa situazione che schiavitù salariata, così
come lo diceva Marx? Se la più granda parte della vita sociale dell'immensa
maggioranza degli uomini è la vita al lavoro, in tutta questa parte della loro
vita sono trattati semplicemente come mezzi e mai come fini in sé, per riprendere
qui le formule del vecchio Kant. In altre parole, sono privati della loro
dignità, per impiegare ancora il vocabolario kantien. I capitalisti nascondono
del resto anche più questa “reificazione”, ossia trasformazione degli uomini in
cose che implica il lavoro salariato. Un tempo avevano dei responsabile del
personale, un termine che include ancora l'argomento di diritto che è la
persona, ma li hanno sostituiti per i direttori dei “risorse umane”,
un'espressione da cui l'oscenità sfugge solamente a quelli che hanno perso ogni
senso morale.
Questa
reificazione non riguarda solamente le ore lavorate, il lavoratore potendo
sfuggire al dominio nel “tempo libere”. Difatti, è la vita stessa del
lavoratore che dipende dal capitalista : quando la crisi getta dei milioni di
salariati alla via, quando i pensionati vedono la loro pensione sciogliere e
devono rimettersi a cercare del lavoro, quando i giovani devono lavorare
gratuitamente nelle pseudo-stagi di qualifica nella speranza di essere un
giorno impiegati altrove, dove è la famosa libertà di cui i liberali ci
ribattono gli orecchi ?
In una parola
come in mille, l'unica prospettiva degna dell'uomo civilizzato, di quello che
sa camminare sulla Luna ed addomesticare, pressappoco, l'energia atomica, di
questo uomo che può comunicare istantaneamente con ogni altro uomo sul pianeta
tutta intero, è “l'abolizione del lavoro salariato e del patronato”, formula
degli anarcho-sindacalisti francese della CGT (in1905). O con Marx :
“L'appropriation capitalista, conforma al modo di produzione capitalista,
costituisci la prima negazione di questa proprietà privata che è solamente il
corollario del lavoro indipendente ed individuale. Ma la produzione capitalista
genera la sua propria negazione con la fatalità che presiede alle metamorfosi
della al naturale. È la negazione della negazione. Ristabilisce non la
proprietà privata del lavoratore, ma la sua proprietà individuale, fondata
sugli acquisiti dell'era capitalista, sulla cooperazione e la possessione
comuna di tutti i mezzi di produzione, inclusa la terra. (Capitale, I, s. VIII cap.
XXXII)
Si tratta bene
di ristabilire la proprietà individuale del lavoratore, ma non la proprietà
privata, ciò che supporrebbe che siano distrutti tutte le acquisiti dell'era
capitalista. La proprietà individuale sulla base della cooperazione non può
significare altro che la proprietà associativa dei lavoratori, questo di cui
abbiamo l'abbozzo nelle cooperative operaie di produzione. La
nazionalizzazione, tipico del socialismo del secolo ultimo, non è il possesso
comune dei mezzi di produzione. Nell'impresa nazionalizzata, il lavoratore
resta sottomisi, neanche al capitalista individuale ma al direttore chiamato
dal governo. Cambiamento di dominio di classe ma per niente abolizione del lavoratoro
salariato e del padronato. Inversamente, un'organizzazione fondata
sull'associazione dei produttori supporrebbe una partecipazione diretta dei
lavoratori alla direzione delle imprese ed alla vita economica, esattamente
così quando degli artigiani o di altri lavoratori indipendenti si associano o
per totalità sia per parte delle loro attività.
Non c'è dubbio sulla possibilità di costruire
delle imprese proprietà dell'associazione dei produttori. I problemi sono più
spinosi quando si passa dello scala della piccola produzione alle grandi unità
integrate. Ne abbiamo tuttavia un esempio, quello di Mondragon, una cooperativa
nata al paese basco che raggruppa oggi più decine di migliaia di cooperatori in
Spagna ed altrove. Questa cooperativa opera nel campo industriale
(attrezzatura, materiale di sport, ecc.), la finanza, la grande distribuzione
alimentare, eccetera.. Mondragon ha un mezzo-secolo di esistenza adesso e
rimane un'impresa capitalista nella misura in cui è sottomessa alla concorrenza
e deve ubbidire alle regole di gestione delle imprese capitaliste, sotto pena
di sparire. Del resto solamente la metà dei salariati del gruppo è
cooperatrice, poiché Mondragon ha acquistato delle società non cooperative che
restano delle società capitaliste normali sebbene il capitalista sia questa
volta un'associazione di produttori. Ma l'esistenza di una molto grossa impresa
cooperativa basta a mostrare che l'associazione dei produttori non è solamente
una chimera o un'organizzazione valida
in alcuni tiri ecologici.
Più complessa è
la questione del coordinamento di insieme, alla scala di una nazione o di un
gruppo di nazioni. Si conosce due modi di affettare le risorse disponibili tra
i diversi settori della produzione : il
mercato ed il piano. Il piano centrale non si è mostrato molto brillante nelle
sperimentazioni conosciute e, la causa dell'insuccesso non tiene solamente al
carattere particolare della casta burocratica sovietica ma ai problemi più
generali e più fondamentali. Tuttavia un puro “socialismo di mercato”, ossia
un'organizzazione economica concorrenziale nella quale le imprese capitaliste
sarebbero sostituite semplicemente dalle cooperative operaie, è un tipo di
società lontano da essere soddisfacente, perché riproduce su un'altra scala il
principio capitalista secondo che gli uomini sono naturalmente dei concorrenti
o dei rivali. Esiste tutta una letteratura che, sotto l'intitolato generale di
“modelli di socialismo”, discutono i diversi modi di articolare
l'appropriazione sociale dei mezzi di produzione ed il mercato.
Si arguirà che
questa organizzazione comune della produzione è solamente quella di una libertà
collettiva e non per l'esattezza della libertà individuale. Non facciamo
tuttavia che riprendere il passo già schizzato da Rousseau nel Contratto
Sociale. Ad un'impossibile e povera libertà naturale dell'individuo diviso
dagli altri uomini, a questa libertà di alcuni che si paga della schiavitù
della grande maggioranza che si chiama liberismo, sostituiamo una libertà
civile infinitamente più ricca poiché fondata sull'impegno di tutti
nell'organizzazione e la definizione dei finalità della produzione della vita
materiale e spirituale di tutti.
È possibile
concepire un'organizzazione sociale chi sia in ogni punto la manifestazione
della libertà individuale? O ancora, è possibile sormontare la contraddizione
tra individuo e società ? Ecco la domanda sulla quale inciampa finalmente ogni
pensiero rivoluzionario. L'anarchismo dà un soluzione impossibile :
l'affermazione assoluta dell'individuo che vivrebbe con gli altri senza imporre
e senza imporsisi nessuna costrizione. Il collettivismo denominato anche "
comunismo " proponi una soluzione inaccettabile ed insopportabile a lungo
termine. Dunque bisogna ammettere una contraddizione senza sorpasso tra individuo
e società. E lo sviluppo di istituzioni comunitarie, di una vita comunitaria
liberamente scelta è possibile solamente se allo stesso tempo l'individuo può
proteggersi della tirannide collettiva, se dispone di una sfera di intimità che
sia proprio a lui e che sia legalmente inviolabile. Questa sfera include le
libertà individuali tradizionali (libertà di coscienza, libertà di espressione,
libertà di andare e di venire, ecc.) così come la riconoscenza della proprietà
privata. Si deve distinguere, difatti, la proprietà privata della sua
abitazione e dei suoi beni e la proprietà privata dei mezzi di produzione,
ossia proprio la proprietà capitalistica. La seconda non è una proprietà sulle
cose ma un rapporto sociale che suppone il dominio mentre la prima è semplicemente
l'affermazione del diritto dell'individuo ad abitare il mondo comune.
Più
generalmente, in una società dove dominerebbero i principi comunisti, si
dovrebbe evitare che i poteri non siano concentrati, anche se questi stanno tra
le mani di un Stato repubblicano e sociale, e si dovrebbe permettere tanto
lontano quanto ciò è possibile di permettere a ciascuno di vivere la vita che
sceglie. Ad un'organizzazione sociale dominata per la costrizione, si deve
potere sostituire per quanto possibile delle appartenenze comunitarie
liberamente scelte. Per questa ragione, un società comunista potrebbe accettare
anche perfettamente una sfera di piccola produzione indipendente nel campo
artistico, quello dell'artigianato o delle libere professioni. Quello che vuole
produrre solo ed accettare la disciplina della cooperativo di produzione non
deve potere farlo senza danno. Alle cooperative di mostrare che sono realmente
superiori a l’iniziativa individuelle !
Nello stesso
ordine d’idea, un comunismo non utopico sarebbe internazionalista ma
riconoscerebbe l'esistenza imprescindibile delle nazioni. L'internazionalismo
significa la solidarietà dei popoli e la loro unione in un trattato di pace
continua, un poco come Kant o di Rawls, ma non implica l'idea di una repubblica
universale, di un Stato mondiale, una delle prospettive più terribili che si
possa immaginare. Anche qui, la dispersione del potere permette di considerare
la salvaguardia della libertà mentre “il
comitato centrale mondiale dei consigli operai" non farebbe che
ricostituire il “soviet supremo”.
Tutto cio che
abbiamo appena abbozzato non ha più niente da vedere col “comunismo integrale”
e “l’uomo nuovo”, non più niente da vedere colla defonta utopia del comunismo
storico del Novecento. Si tratta solamente delle grandi linee di una possibile
transformazione sociale, che si può
mettere in opera adesso, sebbene parzialmente e progressivamente.
Fermiamo qui.
C’è necessità di costruire una filosofia politica articolata alla teoria
sociale, una filosofia politica dell’emancipazione effettiva dei dominati.
Denis COLLIN.
18 Gennaio 2009
[1] D. Collin, Morale et justice sociale,
Le Seuil, Paris, 2001
[2] B. Williams, La sorte morale, (Moral Luck, 1981), trad. R. Rini, il Saggiatore,
1987
[3] S.
Veca, La bellezza e gli oppressi : dieci lezioni sull’idea di giustizia,
Feltrinelli, 2002
[4] R.Dworkin,
Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza (Sovereign Virtue, 2000).Feltrinelli,
2002
[5] R.
Dworkin, I diritti presi sul serio, 1982, Il Mulino
[6] Voir
C. Lévi-Strauss, Tristes tropiques, Tristi tropici, Il Saggiatore, 2008
[7] Si
mi permettera di rinviare a D. Collin, Comprendre Marx, Armand Colin,
2006.
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